CULTURA

Il colonialismo nell'arte e le radici del razzismo

Un viaggio nel colonialismo italiano, visto attraverso lenti della produzione artistica: è il percorso scelto per il volume Esporre l’Italia coloniale (Il Poligrafo 2017), da poco pubblicato da Giuliana Tomasella, docente di storia della critica d’arte e di museologia presso l’università di Padova, con la collaborazione delle giovani ricercatrici Priscilla Manfren e Chiara Marin.

È il 1882 quando il ministero degli esteri acquista dall’armatore genovese Raffaele Rubattino i diritti su un’area in fondo alla baia di Assab, in posizione strategica sullo stretto tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. È l’inizio dell’avventura coloniale italiana, che si protrarrà tra varie vicende per un sessantennio, inglobando via via Eritrea, Somalia, Libia e infine Etiopia.

Un esito a cui l’Italia giunge buon ultima tra le potenze occidentali e non senza rovesci sanguinosi e umilianti, come le disfatte di Dogali e di Adua, ma che mobilita per anni le risorse e le forze del Paese: non solo quelle politiche, economiche e militari, ma anche quelle culturali. Perché, come scrive Edward Said in Cultura e imperialismo (Gamberetti Editrice 1998), “la costruzione di un impero, per realizzarsi, deve essere sostenuta dall’idea di avere un impero […] e a tal fine tutta la necessaria preparazione viene fatta nel campo della cultura”.

In questo fondamentale lavoro di preparazione da una parte, di continua rielaborazione dell’immaginario collettivo dall’altra, un ruolo fondamentale è quello esercitato dell’arte nelle sue varie espressioni. Dalla letteratura alla musica – chi non ha orecchiato almeno una volta una delle tante versioni di Faccetta nera? – passando per pittura, scultura e fotografia, tutto durante il periodo coloniale concorre ad alimentare una macchina della propaganda perennemente affamata di contenuti, con l’obiettivo di coinvolgere emotivamente gli italiani sulle sorti dei domini oltremare.

Uno dei canali più importanti per la diffusione del nuovo immaginario, in un’epoca in cui non c’è ancora la televisione, è quello rappresentato da mostre, esposizioni e fiere, che in quel momento vivono uno dei loro periodi d’oro. Parte da qui il lavoro di Tomasella, che assieme alle sue collaboratrici raccoglie e analizza 38 eventi tra il 1884 e il 1940, richiamando alla memoria e rendendo fruibili per gli altri studiosi materiali ancora non sufficientemente indagati, spesso addirittura dimenticati o rimossi.

Il libro è strutturato in due parti principali; nella prima c’è il denso saggio dell’autrice, che percorre la storia dei rapporti tra arte e colonie dallo sviluppo del filone dell’orientalismo fino alla seconda guerra mondiale, ponendo alcune questioni fondamentali. La seconda parte del volume contiene invece il regesto con le schede sulle singole esposizioni o fiere nelle quali l’arte a soggetto coloniale è presente, anche se magari con un ruolo solo secondario. Come ad esempio nella fiera campionaria di Padova, che a partire dal 1922 ha una nutrita sezione coloniale, non sempre supportata dal ministero delle colonie ma sempre di costante e documentato richiamo per i visitatori.

 “L’idea di questo progetto nasce dall’attualità”, spiega al Bo Giuliana Tomasella, che nelle sue ricerche si occupa da tempo del rapporto tra arte e politica, in particolare tra arte e fascismo. “Quando un giorno ho notato che i manifesti di alcune forze politiche di estrema destra riprendevano immagini degli anni ’20 e ’30, o addirittura le copertine della rivista ‘La difesa della razza’, mi è venuto in mente di andare a ritrovare le radici di pregiudizi così fortemente radicati”.

Nelle ricerche è via via emersa una mole sterminata di materiale: “Sinceramente non mi aspettavo una tale quantità di immagini presenti nelle grandi esposizioni coloniali, in particolare quelle di Roma nel 1931 e di Napoli nel 1934 – continua Tomasella –. Parliamo di centinaia di quadri e sculture, molte delle quali in seguito scomparse letteralmente scomparse nel nulla, che oggi conosciamo soprattutto grazie ai cataloghi”.

Una produzione artistica vastissima e non sempre di qualità scadente, con la quale fino ad oggi non abbiamo fatto i conti. Del resto la fortuna dell’arte a soggetto esotico e coloniale inizia già con l’Italia liberale, ma diventa centrale soprattutto con il fascismo, che fonda proprio sul recupero del passato imperiale una parte importante della sua retorica. L’alterità coloniale diventa così fondamentale nel programma di comunicazione fascista, e lo sarà sempre più con l’accentuarsi dell’ideologia razzista, del resto sempre sottesa nella politica del regime anche prima del ’38.

L’ideologia di quegli anni è esemplificata da Il Bò, allora giornale studentesco tra i più diffusi: “Bisogna comportarsi con i neri come se la razza bianca fosse infinitamente superiore alla nera – è scritto in un articolo del 28 luglio 1936, all’indomani della guerra d’Etiopia –, come se l’uomo bianco fosse un dio”. Così i prodotti artistici dei popoli africani, lungi dall’essere apprezzati per il vigore e l’espressività, come fanno ad esempio le avanguardie artistiche europee, vengono presentati come l’ennesima prova lampante dell’inferiorità degli indigeni.

Un passato da tenere presente in un momento in cui sembrano sempre più riemergere atteggiamenti che si credevano definitivamente sepolti dalla storia: “Quello italiano non fu solo un razzismo paternalistico o di facciata – conclude Tomasella –; già negli anni ’30, ben prima delle leggi razziali, una serie di interventi legislativi misero ad esempio sempre più ostacoli ai rapporti tra italiani e popolazioni delle colonie, in particolare alle unioni miste e al riconoscimento dei loro figli. Oggi c’è grande necessità di una vera e propria alfabetizzazione diffusa su questi temi, troppo a lungo rimossi: per questo il libro è un punto di partenza più che un punto di arrivo”.

Daniele Mont D’Arpizio

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