SOCIETÀ

Ilaria Capua, scienziata made in Italy

Ilaria Capua, 46 anni, virologa italiana insignita nel 2011 del massimo riconoscimento mondiale nel suo campo, uno dei 50 più influenti scienziati al mondo per Scientific American, era sabato a Trieste per presentare il suo nuovo libro intitolato “I virus non aspettano – Avventure, disavventure e riflessioni di una ricercatrice globetrotter”.

Di fronte al pubblico di Trieste, la celebre ricercatrice si racconta con ironia come nelle pagine del suo libro, ripercorrendo le tappe principali della sua vita di moglie, madre e scienziata. Sposata con Richard, scozzese conosciuto in aeroporto a Venezia, mamma di una bambina di otto anni, Ilaria Capua ha vinto numerosi premi internazionali tra cui spicca il Revolutionary Mind della rivista americana Seed ottenuto nel 2008 e il Penn Vet Leadership Award in Animal Health assegnatole dall'università della Pennsylvania nel 2011; dirige con successo il dipartimento di Scienze biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie e coordina numerosi progetti di ricerca dell’Unione Europea.

“Ritengo di essere una delle testimonianze che anche in Italia si può eccellere, si può fare dell’ottima sanità, si possono influenzare anche meccanismi di politica sanitaria internazionale, pur essendo parte del servizio pubblico. Non sono Wonder Woman e non mi ritengo affatto un genio. Sono una donna che crede in quello che fa e che è stata in grado di sfruttare determinate opportunità che la vita le ha presentato, a vantaggio della propria crescita professionale e di quella del proprio gruppo di lavoro..” (I. Capua, I virus non aspettano; Marsilio, 2012)

Pioniera della scienza “Open Access”, divenne famosa nel 2006 quando decise di rendere immediatamente pubblico su una banca dati aperta il genoma dell’influenza aviaria che il suo laboratorio per primo aveva appena sequenziato, lanciando poco dopo l’iniziativa GISAID (Global Initiative on Sharing All Influenza Data), un network internazionale per la condivisione on-line dei dati genetici dei virus dell’aviaria.

“Avevo il dovere di condividere con tutta la comunità scientifica la nostra esperienza nella gestione e nel controllo dell’epidemia, che necessitava di un consenso a livello internazionale. E così, nei primi anni del nuovo millennio, iniziai a viaggiare per raccontare quello che avevamo fatto per accrescere la visibilità e la credibilità del nostro gruppo di ricerca. (…) I viaggi mi hanno permesso di staccare gli occhi dal particolare e cogliere l’insieme. Questo modo di vedere le cose mi ha spinto a cacciarmi in una cosa molto più grande di me, che mi ha trasformato in un eroe per caso.”

Nel definirsi veterinaria “un po’ per caso e un po’ no”, ricorda l’infanzia trascorsa a stretto contatto con gatti e cani, in particolare pointer e setter inglesi, le razze predilette dal padre, e la scelta, non approvata dai genitori, di lasciare Roma per andare a studiare a Perugia.

“Mi laureai studiando come una pazza per evitare che mio padre mi minacciasse di dover tornare a casa e iscrivermi a legge!” Appassionata e tenace, orgogliosa di fare ricerca pubblica in Italia e di costituire con il suo gruppo una punta di assoluta eccellenza in un’epoca in cui sembra che solo le istituzioni private possano riuscirci, non nasconde difficoltà e interrogativi in merito al suo ruolo e alla sua professione nel nostro paese.

“Non riesco a fare a meno di chiedermi quali siano i motivi per cui sacrifico il mio tempo, mi affatico e sono sempre alla ricerca di nuove sfide. Sono sicura che, sotto sotto, ci sia un forte sentimento di responsabilità civile. Primo, nei confronti di mia figlia: voglio che per lei sia normale avere una mamma impegnata, che fa del suo meglio per eccellere nella professione che ha scelto. Secondo, mi piace credere che il mio lavoro possa contribuire al benessere di una comunità più ampia di cui faccio parte, che può definirsi dinamica e in evoluzione solo se non smette di interagire in maniera credibile con altre comunità. Il mio contributo è questo, cercare nel mio piccolo di promuovere la ricerca italiana e la credibilità del servizio pubblico di questo paese in ambito internazionale. Ma non senza un senso di smarrimento e di frustrazione.”

Affermata e stimata internazionalmente, fa i conti con gli stereotipi dell’italianità al femminile quando parla della sua maternità talvolta troppo protettiva, di cui ricorda con leggero imbarazzo alcuni episodi.

“Signora buongiorno, sono la maestra Giovanna del nido. Oddio, cosa è successo? Niente, signora. Le volevo solo dire che oggi è il tre giugno e fuori ci sono trenta gradi. Magari possiamo togliere le pantofoline di lana a sua figlia. Ha i piedini lessi. Mi fa avere dei sandalini? Certo, certo. Grazie, maestra Giovanna.”

E per il futuro della ricerca, investe sulle quote rosa, rifiutando la tradizionale divisione fra affermazione professionale e vita familiare che vorrebbe le donne a privilegiare la casa, gli uomini a proprio agio sul lavoro.

“Penso che le donne siano un grandissimo potenziale per il paese. Bisogna però che tirino fuori più grinta e più voglia di emergere. Finché si aspettano che il sistema si metta a posto, siano disponibili più asili, ci sia una maggiore attenzione alla questione femminile, perdono anni importanti.” “Ci sono mille motivi per farsi un giro all’estero, almeno una volta. Chi non osa, lo fa correndo qualche rischio: rimanere magari soddisfatto del lato A, ma disperata e frustrata per quanto riguarda il lato B. c’è poi l’aspetto ambivalente di una scelta del genere: una vita all’apparenza più tranquilla è in realtà molto rischiosa in quest’epoca di divorzi facili. E poi, quando i figli cominciano a essere adolescenti, il lato A soffre per il disequilibrio con il lato B!”

Gioia Baggio

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