SOCIETÀ

Ultraricchi e poveri, senza vie di mezzo

Una disuguaglianza pervasiva, cresciuta in trent'anni e diventata ormai parte integrante del sistema economico. Una disuguaglianza non giustificabile e non giustificata, neanche in una società permeata dai valori del merito e dell'individualismo come quella americana. Una disuguaglianza costosa, non solo e non tanto per l'economia quanto per la stessa democrazia. Ha il tono di un pamphlet ma le dimensioni di un manuale l'ultimo libro di Joseph Stiglitz, tradotto adesso in italiano con il titolo Il prezzo della diseguaglianza. Un vero e proprio manuale per il movimento del 99%, titolo che accomuna sulle due sponde dell'Atlantico indignados e Occupy Wall Street: la maggioranza che ha perso nella lotteria dell'economia dell'ultimo trentennio, contro l'ultraminoranza del 1% che ha guadagnato e preso la fetta maggiore della torta, sia quando questa cresceva, negli anni buoni, che negli ultimi tempi, gli anni del crollo.

La storia è semplice, e il premio Nobel per l'economia la racconta così: i ricchi diventano più ricchi, i più ricchi dei ricchi diventano ancora più ricchi, i poveri diventano più poveri e più numerosi, e il ceto medio è spazzato via. I redditi dalla vecchia classe media sono fermi o declinano, e la loro distanza dai redditi più alti aumenta. Questa è diventata ora la foto dell'America, e non a causa della crisi, anzi: la caduta del ceto medio precede, e in qualche modo prepara, il crollo del 2007-2008. Una crisi in parte coperta dagli stessi maneggi finanziari che poi l'hanno fatta precipitare, con famiglie indebitate per poter sostenere un tenore di vita superiore ai propri (declinanti) redditi, e che poi, con l'esplosione della bolla subprime, hanno perso tutto, anche la casa, le prospettive di pensione, il lavoro. Ma come siamo arrivati a questo, cosa ha causato la trasformazione dell'America dalla terra delle opportunità al paradiso della rendita per i pochissimi che siedono al top della scala distributiva? In quali e quanti anni la spina dorsale della società americana, il ceto medio, è stata massacrata? E con quale consenso?

Stiglitz ha una teoria molto netta su questo. L'economista che ha vinto il Nobel per aver dimostrato il ruolo delle asimmetrie informative nei fallimenti del mercato, dice che il colpevole principale non va cercato nella sfera dei mercati ma in quella della politica. Ci sono stati certo dei cambiamenti strutturali che hanno modificato l'azione delle forze di mercato: l'innovazione tecnologica, che ha espulso la forza lavoro meno qualificata, e la globalizzazione, che ha indebolito il potere contrattuale dei lavoratori. Ma è sbagliato e miope, per Stiglitz, parlare solo dell'azione di queste forze, come se fossero naturali e ingovernabili, e stati e governi potessero intervenire solo a valle, a tamponarne gli effetti. Non è così, e il volume lo dimostra soprattutto attraverso un'accurata trattazione di quello che in inglese viene definito il “rent-seeking”, e che un altro grande studioso della diseguaglianza, il francese Thomas Piketty, chiama “il ritorno del rentier”: chi occupa posizioni di vertice nella vita economica (e soprattutto finanziaria) modella e forgia le regole del gioco in modo tale da estrarre una rendita di posizione, un premio dovuto all'esercizio del proprio potere e non alle dinamiche “naturali” del mercato. Solo lo strepitoso successo dei cacciatori di rendite può spiegare come sia stato possibile arrivare a un rapporto di 200 a 1 tra le retribuzioni dei Ceo e quelle dei loro dipendenti (solo un quarto di secolo fa il rapporto era di 30 a 1); come sia possibile che l'1% più ricco si procuri quasi il 20% del reddito, e un terzo di tutta la ricchezza della nazione; e come, parallelamente, gli Stati uniti siano scesi di parecchi gradini nelle classifiche mondiali dello sviluppo umano.

Una storia solo americana? Tutt'altro. Lo stesso Stiglitz, nel sottolineare le particolarità e la primogenitura Usa nell'esplosione della nuova questione sociale, aggiunge però un'introduzione al libro nella quale nota come la dittatura dell'1% sia un fenomeno di tutto il mondo occidentale. Una ulteriore dimostrazione, per chi volesse approfondire nelle cifre le 476 pagine di Stiglitz, si ha nel prezioso database sullo stato dei redditi al top della distribuzione nel mondo, che Piketty e altri economisti hanno elaborato e messo a disposizione di una facile e libera consultazione: The world top income database.

E se restano indiscutibili le differenze tra il modello americano e quello europeo (che l'autore rimarca, facendo però riferimento sempre a quello continentale, non a quelli mediterranei di noi “Pigs”) certamente parlano molto di noi le pagine sul fallimento della politica. Sia prima, nell'aver assecondato i cacciatori di rendite e dunque acconsentito al modello predatorio dei mercati finanziari, che a posteriori, nell'aver rinunciato all'uso del fisco e della spesa pubblica per redistribuire ricchezza e benessere dall'alto verso il basso. Ma soprattutto, parla alle comunità delle idee e degli studi la denuncia di un pensiero fondamentalista, che ha permeato a tal punto di sé l'opinione pubblica dal poter continuare, ancora adesso, a negare l'evidenza: quella per cui la diseguaglianza non è un incentivo a crescere, né un prezzo da pagare all'efficienza. Ma un malessere che è cresciuto all'interno delle nostre società, e che ne ha cambiato i connotati, financo le norme sociali e il (non più) condiviso concetto di giustizia. In una società del genere, scrive l'economista Stiglitz, già consulente di Banca mondiale e di Clinton, adesso molto ascoltato battitore libero, a rischiare non è il Pil ma la democrazia.

Roberta Carlini

Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Einaudi, 2013 (traduzione di Maria Lorenza Chiesara).

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