SCIENZA E RICERCA

I diamanti "risalgono" quando i continenti perdono la loro zavorra

Per la prima volta è stata data una spiegazione al sollevamento in tempi recenti di parte dei continenti, grazie a uno studio congiunto dell’università di Padova e della University of Illinois pubblicato su Nature Geoscience. Oggetto dell’indagine sono i cratoni, zone tettonicamente “morte” che in alcuni casi però presentano delle anomalie, rimaste fino ad oggi senza spiegazione.

I cratoni sono le aree più rigide, antiche e tettonicamente stabili della Terra: essi, per milioni di anni, non hanno subito modificazioni e si trovano generalmente all'interno dei continenti. I cratoni vengono solitamente interpretati come aree fredde, stabili e con scarso rilievo topografico: fredde perché sono distanti dai livelli caldi del mantello, stabili perché la crosta non è stata interessata da deformazione e la loro bassa elevazione è dovuta alla continua esposizione ai processi erosivi. Se così fosse però, non si riuscirebbe a spiegare come esistano aree cratoniche anomale molto estese come quelle che si trovano in Sud-America e Africa sub-equatoriale e che a partire da 120 milioni di anni fa si siano improvvisamente sollevate per diverse centinaia di metri, generando l’attuale rilievo topografico superando i 1000 metri. Il sollevamento è stato inoltre accompagnato dalla simultanea deposizione di importanti giacimenti di diamanti, la cui formazione, oggi, è ancora oggetto di un acceso dibattito.

“Il nostro studio – spiega Manuele Faccenda, docente di Geodinamica del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova – mette a sistema molte anomalie che non si riuscivano ancora a spiegare. Le porzioni più profonde dei cratoni sono probabilmente formate da rocce molte dense che ‘zavorrano’ i continenti, il che spiegherebbe la bassa elevazione di questi ultimi. Talvolta queste radici pesanti possono essere erose per azione di materiale caldo e meno denso che risale dal profondo della Terra, un processo noto chiamato delaminazione”. Continua Faccenda: “Tramite programmi di calcolo sviluppati nei laboratori del dipartimento di Geoscienze di Padova si è potuto dimostrare come il materiale caldo, raffreddandosi, formi una nuova radice in alcune decine di milioni di anni che ha una densità minore rispetto a quella erosa. La conseguenza più importante del processo di delaminazione è una diminuzione della densità media del cratone che causa un sollevamento dell’intera regione. Inoltre, l’interazione tra materiale ‘caldo’ e base ‘fredda’ del cratone genera una serie di reazioni chimiche che porterebbe alla risalita verso la superficie di materiale ricco di carbonio con conseguente formazione di depositi diamantiferi in superficie”.

La radice cratonica ad alta densità (verde-blu) viene delaminata per interazione con il sottostante materiale caldo in risalita (arancione-rosso). Questo processo genera un sollevamento della placca continentale e fenomeni magmatici di tipo kimberlitico che portano alla formazione di giacimenti di diamanti. Una nuova radice cresce per raffreddamento, preservando un impronta deformata legata alla dinamica recente

Lo studio si basa sull’integrazione di numerosi dati geologici, geofisici e di calcolo numerico e per questo fornisce una spiegazione convincente alla dinamica recente dei cratoni anomali del Sud America e dell’Africa sub-equatoriale. I risultati della ricerca offrono una nuova prospettiva alla dinamica dei continenti e alla formazione dei depositi diamantiferi e potranno essere applicati ad altre aree cratoniche anomale, come quelle già identificate all’interno dei continenti Nord-Americano ed Euroasiatico.

Il contributo di Padova, appunto, è stato quello di sviluppare una serie di programmi di calcolo che permettessero di stimare il sollevamento di queste zone cratoniche, la ricrescita della radice cratonica e il tempo necessario. “Il problema è che la struttura di questi cratoni sembra intatta, per cui se noi supponiamo che la radice cratonica sia stata erosa, non dovrebbe essere presente e osservabile oggi. Dunque, tramite i nostri calcoli e le simulazioni al computer, abbiamo dimostrato che il tempo che è trascorso tra i 100 e i 120 milioni di anni è stato sufficiente a far ricrescere la radice. In questo modo quello che noi vediamo oggi è un cratone che in apparenza ha una struttura normale, profonda, ma che in realtà è formato da una radice ricresciuta per raffreddamento e che è meno densa rispetto a quella erosa”.

Il docente ha contribuito anche a sviluppare un codice di calcolo per stimare la storia deformativa che le radici dei cratoni registrano durante la deriva dei continenti (e i cratoni in essi). “Dato che i continenti sono tra le placche più vecchie che esistono, la base del cratone dovrebbe registrare una storia deformativa molto lunga e quindi complessa. Quello che è stato dimostrato, invece, è che una volta che la radice viene rimossa, la nuova radice che ricresce registra solo la storia deformativa recente, semplificando in questo modo la ricostruzione dei movimenti recenti della placca”.

Manuele Faccenda nel 2017 ottiene un Erc Starting Grants dal Consiglio europeo della ricerca per il progetto NEw Window inTO Earth’s iNterior (NEWTON) e in questo stesso filone di ricerca si inserisce il recente studio pubblicato su Nature Geoscience. “Il progetto Newton – spiega Faccenda – è centrato proprio sullo sviluppo di programmi di calcolo che riescono a ricostruire la storia deformativa e la struttura profonda del pianeta Terra. In questo modo riusciremo a migliorare la nostra comprensione di tutti quei processi tettonici, petrologici e magmatici che avvengono a profondità e scale temporali tali per cui non sono osservabili. Per questo per studiarli usiamo simulazioni al computer, programmi di calcolo che ci permettono di stimare l’evoluzione del sistema. L’importanza di questo studio si può comprendere meglio considerando che l’espressione superficiale di questi processi profondi sono i terremoti e i vulcani che condizionano la vita di milioni di persone”.

Il docente anticipa che il progetto europeo inizierà il primo marzo, innanzitutto con l’acquisto di un cluster, per passare poi alla fase di reclutamento con l’assunzione di ricercatori e dottorandi. Alla ricerca, che si concentrerà sull’area del Mediterraneo da un lato e degli Stati Uniti occidentali dall’altro, parteciperanno l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Bologna e alcuni studiosi americani. 

Da sinistra - Manuele Faccenda, Università di  Padova, Stephen Marshak, Quan Zhou, Craig Lundstrom, Jiashun Hu and Lijun Liu, University of Illinois

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