SCIENZA E RICERCA

Covid-19 e inquinamento: cosa sappiamo finora? Il punto con l'epidemiologo Fabrizio Bianchi

Esiste un legame tra inquinamento atmosferico e il virus Sars-Cov-2? Il ruolo delle sostanze tossiche che respiriamo si limita, se così possiamo dire, a danneggiare il nostro organismo e le nostre vie respiratorie rendendoci più facilmente soggetti a malattie e infezioni, oppure le polveri sottili possono essere ancora più subdole e favorire la diffusione del virus contribuendo a farlo viaggiare nell’aria? Intorno a queste domande si stanno concentrando molte ricerche scientifiche e di certo l’elevata mortalità che si sta registrando in alcune aree del Nord Italia, Lombardia in particolare, ha portato gli scienziati a chiedersi se è possibile individuare un nesso tra la concentrazione di smog e l’impatto particolarmente pesante del Covid-19. Una domanda che è stata stimolata anche dall’osservazione di come si è comportato il virus a Wuhan e di come stia adesso travolgendo la città di New York.

Un recente studio dell’università di Harvard, pubblicato sul New England Journal of Medicine e riferito agli Stati Uniti, ha messo in relazione l’inquinamento e il coronavirus giungendo a conclusioni piuttosto preoccupanti: la mortalità legata al coronavirus è superiore del 15% se la popolazione è esposta, sul lungo termine, all’aumento di 1 ug/m3 della concentrazione atmosferica di PM2.5. Venendo invece all’Italia, un Position paper pubblicato nei giorni scorsi dalla Società italiana di medicina ambientale e da un gruppo di studiosi delle università di Bari e Bologna sostiene che i focolai particolarmente intensi della Pianura padana siano stati facilitati dalle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che oltre all'azione di boost, quindi amplificatore degli effetti sul polmone dei malati, sarebbe in grado di esercitare anche un effetto di carrier, facendo da veicolo per la diffusione del virus. Una posizione, quest'ultima, sulla quale la comunità scientifica ha pareri discordanti, al punto da aver spinto, ad esempio, la Società italiana di aerosol a intervenire con una nota firmata da una settantina di scienziati di diversi atenei e istituzioni in cui si sostiene che il ruolo delle polveri sottili come veicolo per il coronavirus "non è però confermato dalle conoscenze attualmente a disposizione, così come non sono ancora del tutto noti il tempo di vita del virus sulle superfici ed i fattori che lo influenzano". 

Per fare il punto su quello che al momento sappiamo del rapporto tra virus Sars-Cov-2 e inquinamento atmosferico abbiamo intervistato Fabrizio Bianchi, responsabile dell'unità di Epidemiologia ambientale del Cnr di Pisa e membro della Rete italiana ambiente e salute.

Intervista all'epidemiologo Fabrizio Bianchi sul rapporto tra inquinamento atmosferico e Covid-19. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Anche già prima di questa epidemia - spiega Fabrizio Bianchi - sapevamo che i virus, specialmente quelli a Rna e sotto questo aspetto il virus Sars-Cov-2 è nuovo ma c’erano già state pandemie di questo tipo, se trovano un sistema immunitario indebolito o un sistema respiratorio che è già affetto da infezioni o è già debilitato è più facile che possano aggredirlo. La domanda riguarda soprattutto i tempi, cioè se l’aggressione del virus è più veloce in persone che sono state esposte a inquinamento atmosferico rispetto a persone che invece vivono in aree meno inquinate. Chiaramente si parte dal fatto che è noto che l’inquinamento atmosferico è in grado di produrre una serie di malattie non trasmissibili, tumorali e non tumorali. E questo lo diamo per acquisito. Dall’altra parte non possiamo non chiederci quale può essere il ruolo di questo fattore in una malattia virale, quindi con patogeni che vengono dall’esterno, su persone che sono esposte in modo diverso all’inquinamento atmosferico. Questo riguarda anche Covid-19 su cui sono state fatte delle osservazioni: i ricercatori partono dalle osservazioni e poi sulla base di queste provano a trarre delle considerazioni. E’ importante sottolineare che se le osservazioni che vengono fatte sono definitive chiaramente ci si può spingere di più nell’interpretazione dei risultati, però per essere definitive occorrono più studi confermativi. Oppure occorrono studi di grandissime dimensioni e con un elevatissimo livello di qualità. Su questo tema l’elemento che ha attratto l’attenzione dei ricercatori è stato il fatto che nella Pianura padana, che come noi tutti sappiamo è un’area molto inquinata per motivi di emissioni sia industriali che di traffico, ma anche per motivi meteo-climatici caratteristici della zona, i contagi di Covid-19 si sono addensati in modo particolare e così gli studiosi hanno cercato di capire se esiste una correlazione. Chiaramente la domanda è pertinente e per la verità ce la siamo fatta tutti: anche noi epidemiologi ambientali che a livello nazionale lavoriamo in rete da tantissimi anni ci siamo posti precocemente lo stesso interrogativo".

E qui però l'epidemiologo del Cnr di Pisa mette in guardia da un rischio, che è quello di dimenticare la natura virale dell'infezione da nuovo coronavirus: "Occorre sempre tener presente - sottolinea Fabrizio Bianchi - che siamo di fronte a un’epidemia da malattia virale e i primi determinanti di una malattia trasmissibile sono i contatti tra le persone, altrimenti finiremmo per trattare una malattia virale come se fosse una malattia non trasmissibile ed è un errore che non dobbiamo fare. Diversamente il rischio è quello di considerare la malattia Covid-19, dovuta all’infezione da virus Sars-Cov-2, come se fosse un infarto, un’infezione delle vie respiratorie, una broncopneumopatia cronica ostruttiva o una malattia respiratoria acuta. No, è una malattia virale che quindi necessita di essere trasmessa e le aree dove si trasmette sono effettivamente quelle più densamente popolate, quelle dove ci sono più scambi, dove le persone entrano maggiormente in contatto tra loro e verso il mondo esterno. E’ chiaro che molte di queste aree, avendo queste caratteristiche, sono anche inquinate: pensiamo a Wuhan, a New York, a Milano, all’area tra Cremona e Piacenza".

Il rapporto tra inquinamento atmosferico e Covid-19 è sicuramente da approfondire e per la Rete italiana ambiente e salute è una domanda di ricerca che esige una risposta adeguata e tempestiva. "Secondo noi, che abbiamo scritto un documento che fa un po’ il punto della situazione e che prelude al fatto che stiamo costruendo un grande studio nazionale con prime tappe anche veloci, l’interesse è capire se l’inquinamento da esposizione a particolato fine, da 1 a 10 micron, ha un ruolo diretto o ha un ruolo di modificatore di effetto. Sulle polveri c’è anche chi sostiene che possano trasportare il virus ma secondo noi per il momento non ci sono evidenze scientifiche su questo perché il virus è fatto in un certo modo: ha un involucro, degli spike sopra, l’Rna interno nel nucleo. E poi è molto suscettibile a effetti esterni e all’azione di ultravioletti, essiccamento, temperatura e umidità, tutte condizioni che possono arrecare danno all’involucro esterno e agli spike e rendere inattivo il virus. Senza un ospite il virus non ha una capacità infettante in sè e per essere infettante ha bisogno di avere una sufficiente potenza e poi trovare le condizioni adatte. Secondo noi l'idea che su ampi spazi ci sia questa capacità di carrier, cioè di portatore, è tutta da dimostrare. Naturalmente però è un dato interessante perché dal punto di vista della comunicazione del rischio è diverso dire alle persone che il virus si trasmette su scala locale, rispetto al dire che può trasmettersi su scala più vasta e che potrebbero arrivare delle polveri da lontano che trasportano virus. In questo secondo caso le persone fanno presto a trarre delle conclusioni, ma se pensiamo che la scorsa settimana sono arrivate delle polveri dal mar Caspio e hanno alzato il livello di inquinamento in una parte della Pianura padana, se queste polveri avessero portato anche il virus ci sarebbe un’altra ondata di possibile infezione. Quello che a noi però interessa maggiormente capire è se l’inquinamento può influire come modificatore di un effetto e sulla velocità di sviluppo della malattia perché questo è avvalorato da alcune osservazioni emerse in tanti studi che sono già stati pubblicati e che fanno vedere che c’è una comorbidità nel Covid-19 che riguarda le stesse patologie legate, in parte, anche all’inquinamento atmosferico". 

Il professor Fabrizio Bianchi si sofferma poi sui due studi che hanno contribuito ad accendere il dibattito. "Fino ad oggi gli studi che abbiamo visto sono quello del Sima e delle università di Bari e Bologna che è uno studio molto semplificato di una correlazione tra dati non di inquinamento, ma di superamento dei valori limite da parte delle centraline, insieme a dei numeri assoluti di contagiati su scala provinciale. Gli autori hanno evidenziato una correlazione molto alta che apre delle ipotesi di ricerca, più che chiuderle in modo definitivo, perché rimane uno studio rudimentale seppur importante dal punto di vista della descrizione di un fenomeno. Dall’altra parte c’è lo studio americano, fatto dal gruppo di statistici di Harward e riferito a tutti gli Stati Uniti, quindi su scala enorme, ed è uno studio sempre di correlazione ma molto più sofisticato, su base geografica più raffinata, con molta attenzione alle analisi di sensibilità, togliendo e aggiungendo variabili per vedere se i risultati sono gli stessi. Dal punto di vista stastistico è uno studio fatto con tutti i crismi. Al di là di alcuni problemi metodologici che noi abbiamo rilevato e che sarà poi valutato dai revisori che stanno analizzando il lavoro, quello che ci ha lasciato molto impressionati è l’entità del rischio che viene riportato: 15% in più della letalità per ogni microgrammo per metro cubo di Pm 2.5, riferito in questo caso a un’esposizione a lungo termine. Questo significa una mortalità enormemente più alta perché se applichiamo quei risultati alla Pianura padana, dove nel 2019 ci sono stati anche oltre venti microgrammi per metrocubo in molte delle province lombarde, noi dovremmo osservare una mortalità gigantesca. Naturalmente non intendo dire che la mortalità che si è osservata per Covid-19 sia piccola: in Lombardia siamo a 11 mila decessi ed è un dato largamente sottostimato, come penso siano sottostimati i dati di altri Paesi che hanno numeri molto più bassi di quelli italiani. Se però provassimo ad applicare i risultati dello studio di Harward otterremmo dei numeri davvero enormi e l’inquinamento diventerebbe il principale determinante della letalità. Noi invece continuiamo a pensare che in una malattia virale, quindi trasmissibile, il principale determinante sia proprio la trasmissione e tutte le condizioni che la favoriscono. L’inquinamento quindi può essere molto importante ma con un ruolo di co-fattore, non di fattore principale. Siamo molto attenti ad approfondire tutti gli studi che vengono pubblicati perché sono tutti importanti, però lavorando in un gruppo multidisciplinare come la Rete italiana ambiente e salute - che dentro ha l’Istituto superiore di sanità, il Cnr, dipartimenti di prevenzione di Asl, Regioni, tutto il sistema nazionale di protezione ambientale e quindi le Arpa, diverse università e con molte professionalità diverse perché ci sono gli statistici, gli epidemiologi, gli esperti ambientali, i tossicologi - abbiamo scelto di lavorare partendo dall’idea di verificare qual è il ruolo dell’esposizione a particolato, sia a lungo che a breve termine, come co-fattore o modificatore degli effetti dell’infezione anche nel legame con la comorbidità".

Un altro elemento che complica l'interpretazione del rapporto tra inquinamento atmosferico e virus Sars-Cov-2 è che osservando la diffusione geografica dei contagi appaiono alcune anomalie, riferite al fatto che in alcune aree del mondo particolarmente inquinate - pensiamo ad esempio all'India, al sud est asiatico ma anche ad alcune città africane densamente popolate - l'epidemia non si è manifestata con le caratteristiche che ha invece avuto nella provincia cinese dello Hubei, a New York o in Lombardia. 


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Da questo punto di vista il professor Bianchi chiarisce che "gli studi di correlazione tengono conto anche del fatto che ci sono anche aree che non correlano, punti che non rispecchiano la relazione. E anche in questo caso sono tanti perché si potrebbe fare l’esempio delle Marche che non è certo un’area particolarmente inquinata e che però, attraverso focolai, ha visto sviluppare tantissimi casi e decessi per Covid-19. Oppure si potrebbe fare l’esempio di Taranto, un’area certamente inquinata dove però non sembra esserci un focolaio. Il punto fondamentale è che se non si sviluppa un focolaio è più facile tenere sotto controllo il proliferare della malattia. Se pensiamo anche alla Cina, è vero che Wuhan è un’area inquinata ma quante altre aree particolarmente inquinate ci sono al pari di Wuhan? Diciamo che siamo di fronte a un problema enormemente complesso in cui però l’errore che non bisogna fare è pensare di essere di fronte a una malattia cronico-degenerativa. Noi per anni abbiamo pensato che le malattie infettive appartenessero al passato, fossero malattie dell’Ottocento o dei primi del Novecento e che una volta trovati i vaccini eravamo in grado di dominarle e che, soprattutto nelle società più sviluppate, nei Paesi a capitalismo più spinto, il problema principale fosse quello dell’inquinamento e delle malattie non trasmissibili. Invece purtroppo i cambiamenti climatici, gli sconvolgimenti planetari, i cambiamenti delle relazioni tra uomini e animali, specialmente quelli selvatici, impongono un ripensamento e bisogna prendere consapevolezza del fatto che non c’è una conflittualità tra malattie infettive e malattie non trasmissibili, soprattutto in un mondo che fino a pochi mesi fa era completamente in connessione. Questo è un virus di cui non conosciamo ancora molti aspetti, lo dimostra il fatto che sia sui test per identificarlo, sia sulle terapie, quelle precoci e quelle per i pazienti più gravi, sia per lo sviluppo vaccino stiamo imparando informazioni nuove giorno dopo giorno e stiamo correndo nella direzione della salvaguardia della salute. Però, se non ripenseremo attentamente alle radici profonde di questi cambiamenti che hanno portato alla situazione che oggi stiamo vivendo, penso che questa non sarà l’ultima pandemia e quindi bisogna prepararsi bene e rivedere anche il rapporto dell’uomo con la natura".

per anni abbiamo pensato che le malattie infettive appartenessero al passato e invece i cambiamenti climatici, gli sconvolgimenti planetari, i cambiamenti delle relazioni tra uomini e animali impongono un ripensamento

E per finire una riflessione sul ruolo dell'Organizzazione mondiale della sanità, al centro di polemiche internazionali collegate alla posizione tranquillizzante espressa nei primi rapporti sulla diffusione della malattia, ai cambi di marcia sulle linee guida per i test diagnostici, inizialmente raccomandati solo ai casi sintomatici, e a una comunicazione non del tutto chiara sull'utilità o meno delle mascherine per le persone non contagiate. Una gestione della pandemia che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definito "disastrosa", annunciando al tempo stesso la fine dei fondi versati dagli Usa. 

"Ho colleghi che lavorano all’Oms a tutti i livelli, sia come professionisti sia come dirigenti, e secondo me - conclude l'epidemiologo Fabrizio Bianchi - questo organismo era, rimane e sarà ancora utile. Probabilmente è stato depotenziato, così come in generale è accaduto a tutta la sanità, e non si è fatto trovare sufficientemente preparato ad una situazione come questa, nonostante la possibilità di una pandemia fosse nelle aspettative e piani pandemici fossero stati già studiati. In realtà lo stesso Oms aveva chiesto agli Stati di attrezzarsi e adeguarsi ai piani pandemici ma molti, compresa l’Italia, non li avevano aggiornati. Strutture come l'Oms sono macchine enormi che o ci si crede e si finanziano o rimangono in una situazione che può risultare parzialmente insoddisfacente. Questa è la condizione in cui si trova l’Oms oggi e, a mio avviso, permangono delle criticità anche dal punto di vista della sorveglianza e della definizione di caso, in modo da avere la certezza che in tutto il mondo quando di parla di positivo a Covid-19 si dice la stessa cosa e che lo stesso accada quando si parla di un decesso “per” o “con” Covid-19. Il problema è che molto di quanto era stato fatto è rimasto sulla carta perché si pensava che una pandemia come questa non poteva arrivare e che se fosse arrivata sarebbe stata come la precedente, come la Sars, che ha fatto male ma non tantissimo. E invece ne è arrivata una che se l’avessimo lasciata correre avrebbe fatto come la Spagnola, cioè milioni di morti. Non è stata lasciata correre, con dei prezzi che stiamo pagando e pagheremo per anni e che sono indicibili. La domanda che mi pongo, come scienzato e come cittadino, è se non sarebbe meglio impiegare questi prezzi che stiamo pagando, anche dal punto di vista economico oltre che di salute, per rivedere il paradigma di modello di produzione e di consumo delle nostre società? Mi auguro che da questa lezione del Covid-19 sia possibile imparare che i valori positivi umani e del rapporto dell’uomo calato nella natura, di cui fa parte e non ne è il padrone, siano superiori a quelli del profitto. Penso che questa sia la riflessione da fare e siamo un po’ preoccupati del fatto che si pensi di rilanciare l’economia con gli stessi criteri e le stesse modalità del passato che poi è lo stesso modello a questa situazione.

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