SCIENZA E RICERCA

Gravidanza sicura o medicalizzazione a tutti i costi?

 Momenti quasi esclusivamente di pertinenza femminile, la gravidanza e il parto sono rimasti confinati per lungo tempo nella sfera privata familiare. Ad assistere la donna durante il travaglio era la levatrice che nell’aiutare “nell’aiutare la partoriente, e nel consolarla, le serve di alleggiamento a’ dolori, e di aiuto in tali affanni”. Chi scrive è il chirurgo veneto Sebastiano Melli, nel Settecento. Gradualmente, anche il chirurgo ostetrico entra nella scena del parto e prende sempre più contatto con le partorienti.

Si tratta di una graduale definizione di ruoli e competenze che, insieme al miglioramento delle possibilità diagnostiche e al diffondersi dell’innovazione tecnologica nel Novecento, faranno della gravidanza e del parto un momento altamente medicalizzato. Soprattutto in tempi recenti. 

I dati parlano da sé. Secondo il rapporto CeDap del ministero della salute, in Italia nel 2010 il 73% delle donne in gravidanza ha effettuato più di tre ecografie e l’85% più di quattro visite ostetriche. Solo il 3% delle donne effettua la prima visita dopo la dodicesima settimana, percentuale che sale al 14% delle madri straniere. L’indagine mette in evidenza inoltre l’eccessivo ricorso al parto cesareo che si effettua nel 37% delle circostanze, anche in questo caso con una netta differenza tra madri italiane e straniere (il 38% contro il 29%). Una tendenza, il ricorso al cesareo, che ha registrato un aumento un po’ in tutta Europa. 

“Non dobbiamo lasciare la gravidanza alla selezione naturale – esordisce Gaetano Thiene, professore ordinario di anatomia patologica all’università di Padova – È necessario individuare le situazioni a rischio, assicurare alla madre una gravidanza sicura, tenendo ben conto dell’importanza della prevenzione. Certamente a volte c’è un ricorso eccessivo alle opportunità cliniche, ma valutare gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione è doveroso”. Del resto, i risultati della medicina sono sotto gli occhi di tutti: la vita media è aumentata, è migliorata la qualità di vita e, in tema di maternità, sono diminuiti i tassi di mortalità perinatale. A confermarlo è anche un rapporto sulla salute perinatale in Europa che mette in evidenza come rispetto al 2004 i tassi di mortalità fetale nel 2010 siano scesi nella maggior parte dei Paesi, a eccezione di Bruxelles e della Slovacchia. La diminuzione della mortalità, che di media è stata del 19%, è più pronunciata in alcuni Paesi dell’Europa occidentale che nel 2004 avevano i tassi più alti, come Danimarca, Italia e Paesi Bassi. In Italia, in particolare, il tasso di mortalità prenatale (in campo medico si parla di “natimortalità”) si è ridotta da 3,7 su 1000 nel 2004 a 2,4 nel 2010. 

“Eppure – continua Thiene – i problemi da risolvere rimangono ancora molti, come l’interruzione spontanea di gravidanza, i nati morti, le malformazioni congenite”. Senza contare la mortalità materna: nel 2010 a livello mondiale, stando al rapporto Trends in maternal mortality: 1990 to 2010, erano 210 le madri che non sopravvivevano ogni 100.000 nati vivi (contro le 400 del 1990). Con uno squilibrio tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati – nei primi il tasso di mortalità materna è di 15 volte superiore rispetto ai secondi – dovuto alla carenza di adeguati monitoraggi sanitari.

Per questa ragione la medicina, tenuto conto anche degli insuccessi, è chiamata a investire in ricerca e trovare soluzioni nuove. “Personalmente sono per una procreazione consapevole e informata”. La pratica ostetrica, che non è solo pubblica ma anche privata, deve farsi interprete della volontà dei genitori, i quali con un “atto di grande responsabilità” vogliono accertarsi della salute del proprio figlio prima della nascita. Perché oggi il paziente partecipa in modo consapevole alla cura medica.  

“Non nego che a volte ci sia un accanimento terapeutico legato a un virtuosismo medico che, in alcuni casi, dovrebbe invece prendere atto dell’impotenza della medicina. Ma non si deve trascurare che gli esami clinici in alcuni casi rappresentano un vero e proprio ‘salvavita’. Durante la gravidanza, ad esempio, riuscire a diagnosticare una cardiopatia congenita prima della nascita permette di programmare un intervento mirato”. 

Il dibattito sull’opportunità o meno di tanti step diagnostici in gravidanza lascia intravvedere tuttavia anche una questione più ampia. Si parla infatti sempre più spesso di medicalizzazione della vita e della società per indicare la tendenza della medicina a estendere i propri campi di applicazione. 

“Nel tempo – osserva l’economista Gianfranco Domenighetti, docente di economia e politica sanitaria all’università della Svizzera Italiana e di Losanna, che ha approfondito in più occasioni l’argomento – sono state abbassate le soglie che definiscono il confine tra malattia e salute, aumentando in questo modo la popolazione a rischio (e dunque bisognosa di cure). Si è diffusa in modo generalizzato la diagnosi precoce, percepita dalla popolazione quasi come garanzia di guarigione”. Un sondaggio condotto nel 2006 in Italia, ad esempio, ha dimostrato che l’80% dei cittadini è del parere che sia sempre utile fare un accertamento clinico per sapere in anticipo se si soffre o meno di una malattia, e solo il 17% lo considerava invece necessario ‘solo in certi casi’. “E infine – sostiene l’economista –vengono etichettate come malattie condizioni che in realtà fanno parte di un normale processo biologico”. 

Del resto “un bambino molto vivace e rumoroso – si legge nel volume La medicalizzazione della vita di Antonio Maturo e Peter Conrad – è un bambino malato? Sentirsi un po' in imbarazzo quando si conoscono persone nuove è sintomo di depressione?”. Un problema avvertito, evidentemente, se il British medical journal già nel 2002 ha ritenuto di pubblicare una classificazione delle “non-malattie”, 200 condizioni fisiologiche considerate a torto patologiche. Tra queste la fobia sociale, la tristezza, la cellulite e proprio la gravidanza.  

Dietro al fenomeno della crescente medicalizzazione della vita, Domenighetti vede una forte influenza dell’innovazione tecnologica che ha permesso passi da gigante soprattutto nella diagnostica e, in modo molto più contenuto, nelle possibilità terapeutiche. A incidere è poi il complesso medico industriale (farmaceutica, robotica, nuove tecnologie sanitarie) e l’insinuarsi di conflitti di interesse da parte degli scienziati soprattutto nel momento in cui si tratta di definire una “nuova” malattia. “Si possono fare molti soldi se si arriva a convincere i sani che in realtà sono degli ammalati” sosteneva nel 2003 R. Moynihan nel British medical journal. “E non si dimentichi – aggiunge Thiene – il ricorso anche alla medicina alternativa”.

Anche la comunicazione in ambito medico-sanitario (lasciata principalmente ai media e solo in secondo luogo ai supporti informativi prodotti dai servizi sanitari) ha le sue responsabilità, nella misura in cui si limita a enfatizzare i soli benefici, non informa sui rischi e non rende conto delle controversie di tipo scientifico. Ciò che invece è necessario, conclude Domenighetti, è una politica fondata sull’informazione istituzionale e centrata sulla comunicazione del rischio e dell’incertezza della medicina, che metta in evidenza i conflitti di interesse esistenti e renda i cittadini almeno scettici sull’efficacia totale di tutto ciò che viene proposto dal sistema e dal mercato.

E che dunque, per chiudere il cerchio, permetta anche alle donne in gravidanza di vivere con serenità il periodo di attesa. Perché, sebbene in alcuni casi la gravidanza non sia priva di rischi che la medicina permette di affrontare, dare al mondo un figlio non è una malattia. 

Monica Panetto

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