UNIVERSITÀ E SCUOLA

La scuola, programma elettorale vincente. Almeno in Cile

Si sono svolte domenica le elezioni parlamentari e presidenziali in Cile e, in un certo senso, hanno vinto le idee e i leader del movimento studentesco. Almeno per il momento.

Michelle Bachelet (già presidente dal 2006 al 2010) è infatti largamente in testa nella competizione, anche grazie a una piattaforma elettorale che ha messo al centro la riforma del sistema educativo. In attesa di conoscere l’esito del ballottaggio che la opporrà alla candidata di centrodestra, l’ex ministro del Lavoro Evelyn Matthei, una cosa è certa: in Parlamento entrano i principali protagonisti delle proteste studentesche, dalla leader carismatica della Federazione degli studenti dell'università del Cile Camila Vallejo, a Karol Cariola del Partido Comunista, da Giorgio Jackson di Revolución Democrática a Gabriel Boric di Izquierda Autónoma.

Una scelta non casuale, quella del coinvolgimento dei leader giovanili all’interno della coalizione della Bachelet, per un Paese che già nel 2006 conobbe la “rivoluzione pinguina” degli studenti delle superiori. La protesta, che inizialmente portò alle dimissioni del ministro dell’istruzione proprio del governo Bachelet, esplode nuovamente nel 2011 (quando cadono altri due ministri dell’istruzione, stavolta del centrodestra) contribuendo al precipitare della popolarità del presidente uscente Piñera, ridotta a fine mandato a un misero 29%.

Educación pública y de calidad (istruzione pubblica e di qualità) è lo slogan degli studenti e dei loro leader. Che, una volta dismessa la divisa bianca e blu da liceali passano alla guida di cortei universitari dal grande seguito popolare, fino ad affermarsi come i volti nuovi di questa campagna elettorale.

Il vento del cambiamento, che soffia forte anche a queste latitudini, deve comunque fare i conti con l’eredità del regime di Pinochet, capace di blindare in Costituzione il principio di un’educazione ridotta a pura scelta individuale, priva di alcun interesse pubblico. Nel disegno della giunta militare le famiglie hanno libertà di scelta sull’istruzione dei figli, ma il buono-scuola che introduce diventa la dote che lo Stato porta al suo matrimonio con l’istruzione privata. Nel frattempo la libertà di insegnamento, assunte le tinte del diritto di iniziativa economica “di aprire, organizzare e amministrare istituti educativi”, perde la sua dimensione sociale, con buona pace della libertà accademica per i professori e del diritto all’istruzione (gratuita) per gli allievi.

La continuità del sistema istituzionale ed economico accompagna l’uscita del Cile dalla dittatura, ma la crescita vertiginosa del Paese che fino al 2011 avanza al ritmo del 6% l’anno (vicina alla condizione di piena occupazione e in grado di garantire il costante aumento dei salari) permette di accantonare timori e difficoltà del “modello” Pinochet. I politici di entrambe le coalizioni – commenta The Economist – possono sbandierare infatti con orgoglio “gli 1,1 milioni di giovani che studiano nelle università e nei collegi tecnici, a fronte degli appena 200.000 universitari del 1990”. È un autentico boom, con il 70% di studenti che per la prima volta possono coltivare il sogno di ascesa sociale delle loro famiglie. Peccato che l’aspirazione a un futuro migliore si paghi a caro prezzo: le tasse delle università statali variano infatti dai 3.000 ai 10.000 euro e solo il 60% degli iscritti può contare su borse di studio e prestiti a tasso agevolato garantiti dal governo (che in ogni caso arrivano a coprire tra il 70 e l’80% delle spese). E il rischio è quello di scoprire una volta laureati – o peggio, abbandonati gli studi – che i guadagni lavorativi non potranno mai compensare l’investimento finanziato dai prestiti bancari.

Le quote di spesa privata per l'istruzione. Fonte: Oecd, Education at a Glance, 2013

Il principio dell’intervento minimo dello Stato (che continua ad essere applicato anche ai settori delle pensioni e della sanità) non basta più a contenere le contraddizioni del Paese. “Il reddito medio pro capite di 12.000 dollari – osserva in uno studio il giurista Fernando Muñoz León dell’Universidad Austral – avvicina il Cile all’Ungheria, mentre la disponibilità economica del 10% più ricco della popolazione (in media 60.000 dollari) arriva a superare i livelli della Norvegia. Resta però il fatto che il 10% più povero tra i cileni vive con il reddito medio della Costa d’Avorio: 700 dollari all’anno”. La conferma arriva dall’Ocse che da un lato registra il più alto indice di disuguaglianza sociale tra tutti gli Stati che aderiscono all’organizzazione, dall’altro mette in evidenza un sistema universitario pagato quasi totalmente dalle famiglie (più ancora che in Corea, Giappone o Stati Uniti). Senza contare che “il 60% dei cileni ha mediamente a disposizione entrate inferiori a quelli degli abitanti dell’Angola”, commenta amaramente l’economista Andrés Zahler dell’Universidad Diego Portales.

Per correggere la disuguaglianza sociale del Paese e ridistribuire la ricchezza la Bachelet, data per sicura vincitrice il 15 dicembre, ha forse i margini per una riforma tributaria: in fondo la pressione fiscale sui cittadini è da anni in equilibrio attorno al 20%. Si troverà però di fronte a un ostacolo estremamente difficile da superare quando vorrà metter mano ai cambiamenti nella scuola e nell’università: la coalizione dei partiti che la sostengono ha infatti ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (67 su 120 alla Camera e 21 su 38 al Senato) senza ottenere la maggioranza dei 4/7 (69 seggi) richiesta per modificare le leggi di rango costituzionale e riformare il sistema educativo. Una maggioranza qualificata che di fatto conferisce alla destra un potere di veto su tutte le eventuali riforme, dall’istruzione alla legge elettorale. La Bachelet non può neppure dimenticare l’insuccesso del suo precedente governo che arrivò, nel 2009 e dopo due anni di dibattito in Parlamento, a modificare già una prima volta la legge sull’istruzione voluta dalla giunta militare. A spingerla furono le pressioni degli studenti, che ben presto si resero conto dello scarso impatto delle nuove norme e tornarono in piazza. A guidarli erano i leader oggi eletti nella sua coalizione, che scalpitano per il potere. Anche se sognano una nuova Costituzione, la vera questione irrisolta.

Carlo Calore

 

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