SOCIETÀ

Il cuore malato dell'Africa

La prima a presentarsi è la dissenteria, poi sopraggiungono vomito e crampi e lentamente arriva la disidratazione. Poi lo shock e nei casi più gravi, la morte. Si manifesta così, quando compare, il colera, un'infezione da batterio (il Vibrio cholerae) che oggi si può prevenire e facilmente curare. Una malattia che però, nei Paesi in via di sviluppo, è ancora capace di uccidere nonostante il trattamento per un paziente infetto preveda soluzioni di acqua, sali e zuccheri, o nei casi di infezione più importante, antibiotici e farmaci specifici. Ma non sempre questo è possibile, o almeno, non ovunque.

È quello che sta succedendo in Sud Sudan, giovanissimo Stato dell'Africa centro orientale dove, nelle contee di Yirol East e Awerial (ex Stato dei Laghi), dall'inizio di febbraio sono stati registrati circa 300 casi sospetti di colera. A denunciarlo è l'Ong Medici con l'Africa Cuamm che qui coordina le attività di 16 centri sanitari periferici che fanno riferimento all’ ospedale di Yirol. L'allarme è stato lanciato dal responsabile dell’intervento del Cuamm nell’area, dottor Giovanni Dall'Oglio medico ed esperto in Sanità pubblica, che a gennaio ha iniziato a raccogliere notizie di persone colpite dall'infezione o decedute mentre tentavano di arrivare all'unità sanitaria più vicina.

“Ad oggi – ci spiega Dall’Oglio – nella contea di Awerial, nell’unità di trattamento già allestita da tempo, sono stati registrati 130 ricoveri e un solo decesso. Ma il numero esatto di coloro che si ammalano nelle aree più remote, non si conosce. Ufficialmente ci sono stati 10 decessi, ma sicuramente sono molti di più. A Yirol East, invece, la situazione è molto più difficile. Qui la popolazione che vive lungo la riva del fiume Nilo e nelle sue isole, dista almeno 40 km dall’unità sanitaria più vicina (lo standard internazionale e i fondamenti del diritto alla salute prevedono che la distanza non superi i 5 km). È qui che abbiamo immediatamente riaperto l’unica unità sanitaria presente”.

Quella a cui Dall'Oglio fa riferimento è area molto estesa, poverissima, difficile da raggiungere, in cui si affaccia il Nilo (dove il batterio del colera si ripresenta periodicamente a causa di un mollusco che qui vive). Un'area in cui negli ultimi anni sono confluite migliaia e migliaia di sfollati (vittime dei disordini politici e della guerra civile che dal 2013 imperversa nella regione) e in cui fame, condizioni di vita precarie, scarsa educazione alla salute e assenza di qualsiasi tipologia di presidio sanitario, rendono il diffondersi dell’infezione ancora più preoccupante.

Un medico del Cuamm visita un bambino a cui è stato diagnosticato il colera

Come avete affrontato la prima emergenza? Appena saputo dell’epidemia, sebbene ancora presunta, abbiamo aperto in pochi giorni 3 centri di trattamento. Di colera si muore in fretta, e se non c’è nausea e vomito, anche in modo indolore. Qui in Sud Sudan adesso il termometro raggiunge anche i 45 gradi. I pazienti, quelli che ce l’hanno fatta ad arrivare ai nostri centri, lo hanno fatto dopo ore di cammino o a bordo di rudimentali canoe scavate nei tronchi d’albero. Ad oggi, il numero dei casi qui registrati supera le 260 unità, mentre sono 8 i decessi. Possiamo quindi dire che grazie a questo tempestivo intervento almeno 100 pazienti sono stati salvati.

Il Sud Sudan non è nuovo a questa malattia che in Occidente oggi si può prevenire oltre che curare. Perché qui continua a non essere così? Perché la vera causa del colera è la povertà e il non sapere come prevenirla. Quello che per noi è scontato, qui non è mai garantito. Il numero di abitazioni dotate di latrina è spaventoso: meno del 10%, e ancora meno, lo 0%, nelle aree remote. Per non parlare delle fonti di approvvigionamento dell’acqua potabile, sempre nettamente al di sotto dei bisogni. La gente beve direttamente dal fiume e da pozze d’acqua assolutamente insicure.

Cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi mesi e quali saranno i vostri prossimi “movimenti”?

Dopo le prime due settimane in cui abbiamo dovuto far fronte all’epidemia solo con le nostre risorse e gli staff delle unità sanitarie, sono cominciati ad arrivare aiuti concreti da parte di WHO, MSF, OXAM, IOM e UNICEF. Ma adesso, per noi che siamo in prima linea, la sfida più impegnativa è quella di andare a identificare nei luoghi più difficili, le comunità colpite dall’epidemia e di cui sappiamo ben poco, ma dove ci aspettiamo di contare tanti morti. Per queste comunità non sono necessari solamente servizi di cura, ma specialmente di educazione sanitaria, di igiene. Per fermare l’epidemia in queste aree è necessario strutturare un vero e proprio programma che preveda da subito la distribuzione di massa di pasticche di cloro per rendere potabile l’acqua, oltre che una serie di semplici procedure per gestirne l’utilizzo. E poi sicuramente queste sono zone in cui una campagna di vaccinazione potrebbe dare grandi risultati, perché è sempre da qui che il colera periodicamente proviene. Ora stiamo lavorando per strutturare i centri di trattamento già esistenti ed aprirne di nuovi più vicini alle popolazioni più a rischio e, in collaborazione con altri partner, svolgere un’intensa campagna di educazione sanitaria. 

Dallo scorso anno, il Cuamm ha ricevuto dal governo locale l’incarico di gestire i servizi di salute di 3 Stati con 8 contee (ex Stato dei Laghi) arrivando così a supportare 3 ospedali e 90 centri di salute periferici, per una popolazione beneficiaria di circa 1 milione di abitanti (250.000 bambini sotto i 5 anni e 58.000 donne in gravidanza). È il più grande progetto che il Cuamm sta sostenendo in Africa. “Il nostro progetto ad ampio raggio sulla sanità – conclude Dall’Oglio - sostenuto da un pool di donatori di cui capofila è la Gran Bretagna, (HPF), è quello di creare un sistema che eroghi servizi di qualità. In inglese si dice “strenghtening”, ossia ottimizzare il sistema, fare il meglio che si può con quello che si ha a disposizione. Sfide grandi a partire sempre dagli ultimi”.

Francesca Forzan

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