SOCIETÀ

La democrazia verso soluzioni autoritarie?

Disprezzo per i politici, delusione verso le istituzioni, calo della partecipazione elettorale, governi minoritari o raccogliticci: la crisi della democrazia va verso soluzioni autoritarie, come nell’Ungheria di Orban o nella Turchia di Erdogan? Si tratta, in realtà, di un processo che viene da lontano, iniziato a metà degli anni Settanta e acceleratosi dopo il 2008: la perdita di legittimazione prima dei singoli governi, poi delle stesse istituzioni democratiche. Se ne parlerà lunedì in aula Archivio Antico del palazzo del Bo a partire dalle 9,30 con Marco Revelli, Carlo Galli, Adone Brandalise, Gianfranco Borrelli, Stefano Visentin, Andrew Calabrese.

Negli ultimi anni, partiti e movimenti “populisti” hanno ottenuto significativi successi elettorali in diversi paesi europei, togliendo voti sia ai partiti di governo che alle opposizioni tradizionali. In Francia, per esempio, alle ultime elezioni presidenziali i due partiti tradizionali – socialisti e gollisti – hanno raccolto consensi talmente modesti da restare esclusi dal ballottaggio: la competizione per la presidenza è avvenuta tra il leader del nuovo partito En Marche!, Emmanuel Macron, e quello del Front National di estrema destra, Marine Le Pen.

A Parigi ha vinto il centrista Macron ma nel resto d’Europa troviamo forti partiti xenofobi in Olanda, in Austria, in Svizzera, mentre in quattro casi una forza politica di questo tipo si trova al governo: Fidesz in Ungheria, ANO 2011 in Repubblica Ceca, Legge e Giustizia in Polonia, Partito del Popolo Danese in Danimarca. In Gran Bretagna, un partito neppure rappresentato in parlamento, l’UKIP, è stata la forza trainante nel referendum del 2016 che ha portato all’uscita del paese dall’Unione Europea.

Negli Stati Uniti è stato eletto, nel novembre scorso, Donald Trump, dopo una campagna elettorale basata su una retorica in cui il “popolo” doveva tornare al centro della politica e spazzare via le élites di Washington, fossero politiche, economiche o giornalistiche. Poiché appena il 20% degli americani ha fiducia nel governo federale, la sua campagna ha avuto successo.

Per tutti questi partiti e movimenti c’è quindi una relazione antagonistica tra il popolo e l’élite corrotta, come hanno messo in rilievo nei loro studi Margaret Canovan e Cas Mudde 2007. A questa riaffermazione del primato dei cittaddini  si aggiunge una forte xenofobia, per cui tutti i partiti populisti europei sono fortemente anti-immigrati, il che li distingue dai partiti di sinistra radicale come Podemos in Spagna o Syriza in Grecia, anch’essi ostili alle élite tradizionali ma non xenofobi.

La crisi economica iniziata nel 2008 è stata al centro di questo processo di delegittimazione: laddove la situazione economica era peggiore, le sconfitte dei partiti di governo sono state più pesanti. La Grande Recessione è stata realmente una critical juncture, un evento epocale portatore di un nuovo equlibrio politico. I partiti tradizionali calano quasi ovunque ma non necessariamente perdono la guida del paese, anche grazie a sistemi elettorali che li favoriscono (come in Francia e Gran Bretagna) e al forte aumento dell’astensione.

La risposta dei partiti tradizionali sono state le grandi coalizioni nei governi europei: oggi in dieci paesi europei vi è un governo di grande coalizione, nel 2007 questo avveniva in soli cinque paesi in cui vi era un governo sostenuto da una grande coalizione. La necessità di escludere le forze populiste o radicali di sinistra si somma al desiderio di restare al potere e finisce col trovare più affinità con gli avversari politici tradizionali che con forze politiche nuove. Cosa succederà dopo le elezioni imminenti in Gran Bretagna, in Germania e, probabilmente, in Italia?

Fabrizio Tonello

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