CULTURA

Google Libri vince la guerra legale contro gli autori

È giunta al capolinea la battaglia legale statunitense tra Google e Authors Guild, il più grande e antico sindacato statunitense che rappresenta oltre 8.000 scrittori. Il 18 aprile 2016 infatti la Corte Suprema ha rifiutato di esaminare il ricorso contro una sentenza d’appello che ammetteva la legalità del progetto di digitalizzazione portato avanti dal colosso di Mountain View.

Si tratta della chiusura di una disputa che risale a 12 anni fa: da quando nel 2004 Google prese i primi accordi con alcune prestigiose biblioteche accademiche per la scansione di libri presenti nelle loro collezioni, dando origine a un’operazione senza precedenti quanto a qualità e portata. Il progetto primario, con 12 milioni di testi coinvolti, che prevedeva la fornitura contestuale delle copie digitali alle biblioteche partner e la creazione di un database dei libri digitalizzati, non era pensato né per la vendita né per la distribuzione di e-book, ma aveva come obiettivo quello di permettere ricerche dentro al testo. La messa a disposizione dei testi digitalizzati, con accesso al database, era prevista solo per le biblioteche pubbliche, mentre ai naviganti in rete era previsto l’accesso solo a frammenti dei libri (snippet), con link a rivenditori fisici o virtuali, o alle biblioteche che possedessero l’opera. Il focus del progetto era quindi rappresentato da collezioni scientifico-accademiche “fuori stampa”, non da opere come romanzi o saggi divulgativi in commercio. 

La questione legale si è trascinata per anni proprio a causa della mancanza di chiarezza delle leggi che regolano il copyright su beni culturali (libri ma non solo). Ora per comprendere meglio è bene suddividere il patrimonio librario delle biblioteche fisiche in tre grosse categorie, a seconda della presenza o meno di diritti d’autore e/o editoriali. 

La prima categoria comprende i libri su cui non ci sono né diritti d’autore né editoriali. Rientrano in quest’ambito i libri considerati antichi, ovvero quelli pubblicati prima del 1830, esenti da copyright e oggetto da decenni di numerosi progetti di digitalizzazione. Ci sono poi tutti quei contenuti che in teoria dovrebbero essere esenti da diritti, in quanto il loro autore è morto da più di 70 anni: in realtà però la legislazione varia da paese a paese e vi possono essere altre variabili da considerare (si veda come esempio le vicende delDiario di Anna Frank). Rientrano infine in questa prima categoria le opere orfane, dove – in mancanza di eredi nel periodo di tutela post mortem dell’autore – il testo può essere considerato libero da diritti d’autore. 

Se la scansione dei libri copyright-free non presenta teoricamente problemi, desta pochi dubbi legali anche quella dei libri in commercio, dove invece i diritti d’autore e quelli editoriali ci sono eccome. Questa zona è di stretta competenza editoriale e i contenuti sono visibili per un numero limitato di pagine solo qualora gli editori abbiano stretto accordi con Google. 

Il conflitto si gioca soprattutto sulla terza categoria di libri: si tratta per lo più di titoli rari e fuori commercio, esauriti o mandati al macero, difficilmente ottenibili anche attraverso il prestito interbibliotecario. Si tratta di contenuti i cui diritti editoriali si sono estinti da tempo, ma dove sussistono ancora diritti d’autore. È la “terra di mezzo”, la più vasta in quanto costituisce il 70% del posseduto delle biblioteche, ed è qui che si focalizza il progetto Google: la loro digitalizzazione sarebbe infatti una grande opportunità per la ricerca.

Nel 2005 Authors Guild organizza una class action notificata al giudice distrettuale di New York contro Google, sostenendo che l’azione di scansione costituisce una chiara violazione del copyright e chiedendo contestualmente la liquidazione dei danni. In seguito - dopo numerose discussioni - le parti trovano un accordo (Settlement o atto transattivo) e lo sottopongono al giudice, che  lo approva Il 17 novembre 2008. Sul piatto la grande G mette 125 milioni di dollari da distribuire agli autori, ma l’accordo solleva comunque un vespaio di critiche e osservazioni, tanto da indurre al cosiddetto Settlement 2.0, che prevede anche una serie di attività per dare una spinta al mercato dei fuori stampa, come la possibilità di acquistare a costi calmierati copie digitali di ciò che oggi è comunque introvabile, comprese le opere orfane. 

Neanche il secondo accordo serve tuttavia a placare le polemiche, e a questo si aggiunse la morte del giudice John Emilio Sprizzo, che lo aveva ratificato. Del caso viene quindi investito un nuovo giudice, Denny Chin, che nel marzo 2011 rigetta l’atto transattivo bloccando di fatto il progetto di digitalizzazione.

In attesa che sul tema si esprima il Congresso la Author Guild, con in testa scrittori e romanzieri di spicco, decide di proseguire nella richiesta di risarcimento danni, diretta non solo a Google ma anche all’archivio dei progetti di digitalizzazione delle biblioteche statunitensi HathiTrust. Secondo gli editori la digitalizzazione, anche chiusa e blindata all’accesso agli utenti, rappresenta comunque una violazione del copyright, mentre per lagrande G, sostenuta dalle biblioteche, se condotta entro determinate condizioni rientra nel cosiddetto Fair Use permesso dalle leggi statunitensi.

Un colpo di scena arriva 2013, quando centinaia di autori e ricercatori accademici si schierano apertamente a favore di Google, sottolineando di non essere rappresentati da Author Guilde di non sentirsi danneggiati dalla digitalizzazione delle loro opere, ma semmai dal blocco del progetto. Le sentenze, prima quella del giudice Harold Baer nell’ottobre 2012 per HathiTrust e l’anno successivo quella del giudice Denny Chin per Google, hanno considerato entrambe il processo di digitalizzazione come rientrante nel Fair Use, in quanto costituirebbe un progresso delle arti e delle scienze senza avere un impatto sfavorevole su chi detiene di diritti di copyright.

La complessa vicenda giudiziaria si avviava ormai verso la fine, con qualche colpo di coda. Nell’ottobre del 2015 il ricorso della Author Guild viene respinto in secondo grado dalla sentenza dei tre giudici della Corte d’appello del Secondo Circuito di NY. Determinante in questo caso l’interpretazione del giudice Pierre Leval, secondo il quale il contenuto originario di un testo può essere utilizzato come una sorta di materia prima dalla quale estrarre nuove informazioni, nuove conoscenze e nuove intuizioni, rientrando pienamente nel Fair Use.

L’opinione di Leval è considerata l’apoteosi di 25 anni di FairUse, e viene oggi confermata dalla Corte Suprema, che dovrebbe mettere finalmente fine a una controversia durata oltre un decennio. Eppure gli effetti della decisione sono ancora difficilmente calcolabili: basti pensare che oggi sono 25 milioni i testi digitalizzati dal progetto Google, ma sono pochissimi quelli interamente consultabili e ancor meno quelli scaricabili. E in Europa? Qui le norme sono ancora più restrittive, non essendo previsto l’istituto normativo del Fair Use statunitense. Costruire biblioteche digitali accademiche nel vecchio continente insomma sarà ancora per un po’ un processo complicato. Fino a quando?

Antonella De Robbio

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