SCIENZA E RICERCA

L’arbitro e gli ogm

Non c’è dubbio: quella degli ogm (organismi geneticamente modificati) è una delle più grandi e controverse questioni che attraversano e, in definitiva, caratterizzano la “società del rischio”, che non è la società in cui si corrono più rischi  ma la società che, come sosteneva il sociologo tedesco Ulrich Beck, ha un’alta “percezione del rischio”. Fiumi di inchiostro, compresi questi rivoli digitali, sono stati scritti sugli ogm, in particolare sugli organismi geneticamente modificati che possono arrivar sulle nostre tavole sotto forma di cibo. Qualcuno li definisce con disprezzo “cibo Frankenstein”, qualche altro con sospetto ottimismo “il cibo che risolverà il problema della fame nel mondo”.

Ma cos’è veramente un ogm? 

La domanda se la sono posta, di recente, un giornalista americano, Nathanael Johnson, su una rivista on line che si occupa di ambiente, Grist, e due autori italiani, il chimico Dario Bressanini e la giornalista Beatrice Mautino, in un libro, Contro natura edito da Rizzoli. Sia l’americano che gli italiani sono giunti alla medesima conclusione: è praticamente impossibile definire un ogm. Non in maniera esatta e rigorosa e condivisa, almeno. 

Il motivo è molto semplice: è impossibile sia in pratica sia in teoria individuare un denominatore comune tra tutti i prodotti definiti ogm. 

Prendiamo, ad esempio, una delle definizioni più ricorrenti sui media: “Sono ogm gli organismi transgenici, ovvero organismi che nel loro Dna hanno geni di un’altra specie”. Questa definizione è errata per ben due motivi fondamentali. In primo luogo perché “siamo tutti organismi transgenici”: tutti gli esseri viventi, infatti, hanno nel loro Dna “geni alieni” da altre specie, che sono stati inseriti, per esempio, da virus e batteri. I biologi chiamano questo fenomeno “trasferimento genico orizzontale”, tra specie che vivono nel medesimo ambiente.  Un recente studio pubblicato su Nature Biology da un gruppo guidato da Alastair Crisp della University of Cambridge, ha dimostrato che nel Dna della specie Homo sapiens, la nostra, ci sono almeno 145 “geni alieni”, provenienti per “trasferimento orizzontale” da altre specie. Tra questi molti geni coinvolti nel metabolismo degli acidi grassi e nella biosintesi dei glicolipidi. 

Ma un altro motivo che rende insoddisfacente questa definizione è che ci sono in giro, anche sulle nostre tavole, prodotti frutto di una modificazione del genoma indotta in maniera specifica dall’uomo senza trasferimento di geni da una specie all’altra: per esempio attraverso il “gene silencing”, le tecniche che consentono di bloccare l’espressione di un gene; oppure attraverso  cambiamenti indotti con il “gene editing”, reso particolarmente facile e potente di recente mediante la tecnica del CRISPR/Cas; o ancora attraverso la mutagenesi. Un vanto dell’agricoltura italiana, il grano Creso, per esempio, è una pianta geneticamente modificata dall’uomo (la linea mutante Cp B144), ottenuta per irradiazione con neutroni e raggi gamma del frumento Cappelli. Ma non avendo in sé “geni alieni”  il grano Creso non è allora un ogm?

Su questa domanda ritorneremo tra poco. Per ora restiamo alla definizione “sono ogm gli organismi che nel loro DNA hanno geni di un’altra specie”. Ma cosa accade, provoca Nathanael Johnson, se proviamo ad allargare la definizione, dicendo che “sono ogm tutti gli organismi che sono prodotti in maniera naturale”. In questa definizione rientrano allora tutte le piante geneticamente modificate con la tecnica del DNA ricombinante. Ma anche il grano Creso. E, a ben vedere, persino l’antica tecnica dell’innesto. 

La provocazione di Nathanael Johnson è solo apparente. Perché questa è la definizione di ogm contenuta nella Direttiva europea del 12 marzo 2001 che regola per legge la materia in Europa: è ogm “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale”. 

Questa definizione non spiega molto, proprio per le ragioni che abbiamo specificato prima. Tant’è che la Direttiva europea è costretta ad accompagnare la definizione con due elenchi interpretativi che, da un punto di vista scientifico, non hanno molto fondamento. Nel primo definisce le tecniche che producono ogm: come le tecniche del Dna ricombinante o le microiniezioni e il microincapsulamento. Nel secondo elenco definisce le tecniche che non danno origine a ogm: la fecondazione in vitro; processi naturali come coniugazione, la trasduzione, la trasformazione; l’induzione della poliploidia. 

Ma anche in questo modo, molto sfugge. Cosicché l’interpretazione della Direttiva europea prevede di escludere dall’elenco delle tecniche di produzione di ogm la mutagenesi e la fusione cellulare. E stabilisce che la “tecnologia del Dna ricombinante” applicata per la prima volta negli anni Settanta del XX secolo “è uno dei metodi più nuovi per introdurre nuove caratteristiche in microrganismi, piante o animali. A differenza di altri metodi di miglioramento genetico, l’applicazione di queste tecnologie è strettamente regolamentata”. 

Insomma, l’Unione Europa – ma anche il National Organic Standards Board degli Stati Uniti fio alla revisione del 2012 – riconoscono che ci sono diverse tecniche “artificiali” per modificare geneticamente gli organismi, ma che ne va regolamentata solo una: quella del Dna ricombinante.

Non possiamo neanche ricorrere a una definizione pratica: sono ogm gli organismi prodotti dalle multinazionali per imporre l’oligopolio sulla produzione agricola mondiale. Il tentativo esiste, ma si identifica con il possesso delle tecnologie del DNA ricombinante. Sia perché le multinazionali commerciano ogm ottenuti con la tecnologia del Dna ricombinante sia piante e animali modificati geneticamente con altre tecniche e anche con piante e animali considerati naturali. Sia perché la gran parte degli ogm da tecnica del Dna ricombinante sono prodotti in centinaia di laboratori pubblici in tutto il mondo, per svariati motivi e che nulla hanno a che fare con le multinazionali. 

Da tutto ciò possiamo ricavare alcune morali. 

La prima è che non è possibile definire in maniera rigorosa (ovvero su basi scientifiche) cos’è ogm e cosa non è ogm.

La seconda è che il primo e più potente ingegnere genetico è la natura stessa. Trasferimenti di geni da una specie all’altra sono assolutamente normali in natura. Quanto alle mutazioni genetiche costituiscono il motore stesso dell’evoluzione. 

Terzo che la definizione di ogm che corre sui media è, appunto, una definizione mediatica. 

Quarto, che la definizione legale di ogm – per esempio quella dell’Unione europea – è appunto una definizione giuridica e non scientifica. Dario Bressanini e Beatrice Mautino ricordano la frase cult di Vujadin Boškov, il vulcanico allenatore che moli anni fa portò la Sampdoria alla conquista dello scudetto nel campionato di calcio: «Rigore è quando arbitro fischia». Non esiste una definizione esatta di rigore, perché le azioni che si presentano in una partita sono così varie da sfuggire a ogni tentativo di rigida classificazione. Per cui, possiamo dire che: “Ogm è quanto arbitro chiama”, laddove l’arbitro è l’istituzione politica.

Il che crea qualche paradosso. L’arbitro europeo (e, almeno fino al 2012, persino quello americano) ha fischiato nel caso del Dna ricombinante, imponendo lunghe e costose operazioni di controllo a chi volesse produrre ogm in campo alimentare con questa tecnologia. Il risultato, paradossale, è che a utilizzare la tecnica possono essere solo le multinazionali in grado di investire enormi quantità di soldi per ottemperare a tutte le norme. Mentre ne sono di fatto esclusi i piccoli laboratori pubblici e i piccoli agricoltori. Volente o nolente, l’arbitro ha fischiato a favore delle grandi imprese multinazionali, truccando la partita dell’innovazione in agricoltura.

Pietro Greco

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