SOCIETÀ

La mafia si può vincere, anche con il senso critico

In oltre 150 anni di storia italiana, le mafie continuano a essere una delle ipoteche più ingombranti sul presente e il futuro del Paese, se non in assoluto la più pesante. Non solo: sempre più spesso l’immaginario, il linguaggio e persino i “valori” mafiosi sembrano fuoriuscire dal loro ambiente per influenzare o addirittura colonizzare quella che dovrebbe essere la parte sana della società. Noi italiani siamo condannati a vivere e a morire ‘mafiosi’? Niente affatto dice Costantino Visconti, docente di diritto penale all’università di Palermo con alle spalle anni di impegno contro la mafia, che ha affidato il suo pensiero a un libro dal titolo eloquente: “La mafia è dappertutto” Falso! (Laterza 2016). Di mafia rispetto a un tempo oggi si parla molto ma non sempre a proposito, con il rischio di non inquadrare bene il fenomeno e quindi di andare fuori bersaglio nelle risposte. Perché, scrive l’autore, “se tutto è mafia, allora niente è mafia!”.

Perché ha scritto questo libro?

“La prima motivazione è quella di un padre che si confronta con i propri figli e percepisce che tanto è cambiato da quando aveva la loro età. Ho vissuto gli anni Ottanta a Palermo: allora ammazzavano i nostri uomini migliori, avere speranza di contenere se non di sconfiggere la violenza mafiosa era una follia condivisa da una piccola minoranza della società. Oggi tutto è cambiato e bisogna dirlo: da 30 anni lo Stato ha un profilo istituzionalmente antimafioso, come mai era accaduto prima. La mafia non è assolutamente sconfitta, però oggi ci sono finalmente le premesse perché questo un giorno possa accadere”.

Molti dei libri, dei film e persino delle serie tv italiane più diffuse al mondo tracciano un quadro molto meno ottimista…

“Rispetto a questi fenomeni ho un sentimento duplice: ai tempi della Piovra (la serie Rai creata nel 1984, ndr) la realtà cinematografica coincideva con quella che vivevamo, mentre oggi trovo parziali queste narrative. Certo di questi argomenti è sempre meglio parlare che non parlarne affatto, ma da qui a pretendere che si tratti di strumenti per una diagnosi attualizzata della realtà ce ne corre. Diversi magistrati possono ad esempio confermare che a Napoli le poderose strutture organizzative della Camorra degli anni Ottanta e Novanta oggi sono quasi dissolte, in certi quartieri c’è addirittura difficoltà a inquadrare chi è il capo camorrista. Anche Cosa nostra palermitana è da tempo in crisi, e ha perso molto del suo controllo del territorio”.

La ’ndrangheta sembra più in salute

“Certo, ma anche qui bisogna distinguere. Di ‘ndrangheta si inizia a parlare nel 1951, poi per più di 40 anni non ne abbiamo saputo quasi più niente. Successivamente negli anni Novanta sono stati processati 2000 ‘ndranghetisti e sono stati comminati 85 ergastoli. Negli anni 2000 ne sono stati processati altri 500, sono state fatte inchieste a Torino, Milano, Genova, Bologna. Forse siamo noi che stiamo assediando la ‘ndrangheta e non viceversa. Il mio è un piccolo tentativo di cambiare la cifra della narrazione prevalente. Che non significa negare quanto le mafie siano ancora forti e pericolose”.

Ma come possiamo essere sicuri che lo Stato abbia finalmente abbracciato la lotta alla mafia?

“Pensiamo solo all’attuale Presidente della Repubblica, quel Sergio Mattarella che io ricordo benissimo mentre sosteneva il corpo del fratello Piersanti (allora presidente della Regione Sicilia, ndr) appena ammazzato. E uno dei primi ad avvicinarsi all’automobile crivellata dai colpi fu il giovanissimo magistrato Pietro Grasso, che oggi ricopre la seconda carica dello Stato. Nel libro provo solo a raccontare quanto è stato fatto in questi anni: un mito della mia gioventù, quello dell’invincibilità mafiosa, oggi sta crollando perché uno Stato forte ha messo all’angolo l’ala militare. Certo rimane ancora la criminalità, la povertà di una società dolorante. Una società che deve liberarsi della subcultura mafiosa e abbracciare i valori della trasparenza e della competitività, al Nord come al Sud”.

In questa guerra che ruolo ha avuto la legislazione antimafia?

“Il libro non è contro la legislazione antimafia, che a più di trent’anni dalla legge Rognoni-La Torre, a cui dobbiamo il 416 bis e le misure patrimoniali contro i mafiosi, ha fatto passi da gigante in termini di creazione di fattispecie incriminatrici congegnate ad hoc per colpire più efficacemente i mafiosi e i loro complici. Ci sono poi corpi investigativi specializzati tra forze dell’ordine e magistratura quotidianamente impegnati nel contrasto alle cosche da Sud a Nord, sezioni ad altissima sicurezza per assicurare il carcere duro a imputati e condannati per mafia. Però attenzione: la giustizia penale ha dato tutto quello che poteva e continuerà a darlo, ma non è solo questione di processi: la sfida va condotta a livello di società e di cultura”.

Qual è la sua opinione sulle infiltrazioni mafiose nel Nord del Paese?

“Che sono pericolosissime perché con i soldi ci si introduce con molta più facilità che con la lupara: poi però, come dimostra l’esperienza, i mafiosi non lasciano scampo e si prendono tutto. In questo senso la ricerca sulle aziende criminali di Antonio Parbonetti è estremamente interessante. Anche qui però bisogna usare gli strumenti giusti, distinguendo a seconda delle situazioni e graduando la risposta dello Stato. Ci sono imprese che stanno sul mercato solo in forza dei loro capitali mafiosi, e queste vanno assolutamente chiuse; altre però sono solo condizionate più o meno gravemente dalle associazioni criminali e per queste si possono fare discorsi diversi. Credo che in questi casi sia più corretto cercare di non ‘uccidere’ queste aziende, bensì di tentare di sottrarle al condizionamento guadagnandole al nostro campo: magari sviluppando delle attività per così dire terapeutiche, aiutandole cioè a difendersi e a tagliare i ponti con la criminalità. C’è però bisogno di analisi dettagliate: se diamo eccessivo spazio alle semplificazioni rischiamo di intervenire sempre con il bazooka mentre a volte sarebbe più opportuno il bisturi”.

Non teme che le sue posizioni vengano strumentalizzate, come fu con le celebri parole di Leonardo Sciascia sui ‘professionisti dell’antimafia’?

“Pensi che 1987 assieme ad altri giovani firmai una lettera in cui davamo del quaquaraquà proprio all’intellettuale di Racalmuto, colpevole ai nostri occhi di attaccare Leoluca Orlando e Paolo Borsellino. Oggi non lo rifarei, anche se rivendico la sfrontatezza e gli errori dei miei 20 anni. Possiamo però dire che in parte la profezia di Sciascia si è avverata: come ogni potere anche l’antimafia ha bisogno di un controllo critico. Oggi siamo pronti per un un’antimafia laica, democratica e secolarizzata, in cui non ci sia bisogno di dei ma solo di persone capaci e carismatiche; un potere maturo che come tale si sottopone a critica, in un dibattito in cui si possa discutere delle misure più efficaci da adottare. Perché oggi possiamo permetterci addirittura il lusso di criticare l’antimafia. Senza odiarsi e senza tic”.

Daniele Mont D’Arpizio

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