SOCIETÀ

Boat People vietnamiti, quarant’anni dopo

Sono all’incirca le 10 del mattino quel lunedì 20 agosto 1979, quando tre navi da guerra dell’ottavo gruppo navale – l’incrociatore Vittorio Veneto, l’Andrea Doria e la Stromboli – entrano nel bacino di San Marco. Ad attenderli su Riva degli Schiavoni c’è una folla festante, mentre le autorità raggiungono i natanti direttamente con gli elicotteri: ci sono il ministro della Difesa Attilio Ruffini, il sottosegretario Giuseppe Zamberletti (responsabile dell’operazione e in seguito “padre” della Protezione Civile), il patriarca di Venezia Marco Cé e il sindaco Mario Rigo.

A bordo delle navi, reduci da settimane di navigazione senza scalo, ci sono oltre all’equipaggio circa 900 profughi vietnamiti, tra cui 125 bambini, salvati nel Mar Cinese Meridionale, al largo di Singapore e della costa malese. Poco a poco saranno fatti sbarcare con l’aiuto dei vaporetti.

Sono stati letteralmente ripescati dalla Marina Militare mentre andavano alla deriva su piccole imbarcazioni, spesso in avaria, nel mar cinese meridionale. Le nostre navi, cariche di tonnellate di viveri, indumenti e medicinali, sono state mandate lì per salvarli nel corso di una missione rimasta unica nel suo genere. In quel momento infatti in Vietnam, da poco riunificato dal regime comunista del nord, centinaia di migliaia di famiglie sfidano il mare per sfuggire alla repressione: cercano di raggiungere la Thailandia, Malesia e Indonesia; migliaia annegano o vengono catturati dai pirati, altri sono falcidiati da fame e malattie nei campi profughi. Spesso le navi vengono respinte dai Paesi vicini, rimorchiate al largo dalle motovedette e abbandonate nell’oceano: non si contano le aggressioni e gli stupri, si registrano persino episodi cannibalismo.

Le nostre navi, cariche di tonnellate di viveri, indumenti e medicinali, sono state mandate lì per salvarli

Il mondo però, anche se ancora diviso in blocchi, reagisce. E anche l’Italia, alle prese con le perenni crisi interne e il terrorismo, fa la sua parte. Così il governo Andreotti, rispondendo alle richieste del segretario Onu per i rifugiati, manda la Marina Militare. All’inizio di luglio la Vittorio Veneto, ammiraglia della flotta, è a Tolone, l’Andrea Doria a Barcellona: partono dopo aver ricevuto un cablogramma urgente per recarsi alle rispettive basi, poi si riuniscono prima di attraversare Suez. Molti marinai e ufficiali rinunciano alle licenze e ai congedi per portare a termine la missione, durante la quale verrà setacciata un’area di circa 250.000 chilometri quadrati. Dopo meno di due mesi sono già di ritorno con il loro prezioso carico di umanità.

Tra i profughi arrivati a San Marco c’era anche To Cam Hoa, che oggi vive a Breda di Piave (Treviso): “Ci sono molti ricordi che non si possono dimenticare: fame, sete, paura di morire... la nostra barca era danneggiata e si trovava dispersa nel mezzo dell'oceano. Mi ricordo quando incontrammo la nave italiana, fu come un miracolo; l'Italia in quel momento rappresentava la salvezza per i profughi vietnamiti in fuga dal regime stalinista”.

Quello che oggi colpisce è la gara di solidarietà che allora scattò in tutta Italia per accogliere i profughi, in particolare in Veneto, dove il coordinamento regionale per gli aiuti viene stabilito a Padova. In prima linea ci sono la Croce Rossa Italiana e soprattutto la Caritas guidata da monsignor Giovanni Nervo.

In poco tempo solo a Padova (come riporta dal settimanale diocesano la Difesa del popolo) vengono messi insieme 26 milioni e mezzo di lire tramite la raccolta di indumenti usati, sperimentata per la prima volta come modalità di autofinanziamento, mentre una somma almeno altrettanto grande arriva dalle donazioni private. Intanto piovono letteralmente proposte di lavoro e di abitazioni, tanto che a fine gennaio 1980 la Caritas padovana sarà addirittura costretta a comunicare che non ci sono abbastanza rifugiati rispetto alle offerte di aiuto.

Quello che oggi colpisce è la gara di solidarietà che allora scattò in tutta Italia per accogliere i profughi

Le storie e gli episodi da raccontare sono tanti: una famiglia si offre di costruire una casa a una famiglia viet, mentre una ditta si offre di arredarla; una scolaresca raccoglie il necessario per comperare agli ‘amici profughi’ un Califfo e una macchina per cucire, mentre i dipendenti della banca Antoniana si tassano lo stipendio e i commercianti padovani inviano generi alimentari. Molti ospitano i rifugiati direttamente nelle loro case, non solo nel capoluogo: accade ad Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte, Zugliano...  E gli aiuti non sono solo materiali: alla celebrazione del Têt (il capodanno vietnamita) del 1981, organizzata a Tencarola, prendono parte anche 300 italiani. 

Quest’anno, a differenza di 10 anni fa, non sono previsti festeggiamenti particolari per ricordare quegli eventi straordinari. Il tempo passa e le energie diminuiscono per tutti; poi anche l’atmosfera pare essere un po’ cambiata, anche se spesso sono proprio i vietnamiti d’Italia, per paura di strumentalizzazioni, a respingere parallelismi troppo facili con la situazione odierna. “Al momento, la comunità degli ex-profughi vietnamiti in Italia comprende ben tre generazioni che si sono perfettamente integrate con la cultura e lo stile di vita italiani, e ci possiamo considerare a tutti gli effetti italiani... – conclude To Cam Hoa –. Gli anziani della prima generazione sono ormai in pensione, alcuni ora purtroppo non ci sono più. La maggior parte si è adattata con successo, i nostri giovani sono quasi tutti laureati e lavorano... alcuni di loro sono emigrati all'estero per trovare altre opportunità e fare nuove esperienze”. Rimane quel piccolo grande miracolo di solidarietà, il cui ricordo rischia ogni anno di affievolirsi. Tranne, ovviamente, che per gli interessati.

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