UNIVERSITÀ E SCUOLA

Concetto Marchesi, il rettore sovversivo

Studioso rigoroso e insieme creativo, ma che non ha mai confinato la sua sterminata cultura ad ambiti esclusivamente accademici. In Concetto Marchesi anzi è la stessa conoscenza dei classici a far scaturire e a nutrire l’impegno politico, in un continuo intreccio di rimandi tra storia e attualità che si sviluppa durante tutta la sua vita. È questo il tratto che traspare da Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza 2019), il libro dedicato da Luciano Canfora al grande latinista siciliano, rettore dell’ateneo padovano nelle concitate fasi tra la caduta di Mussolini e l’instaurazione della Repubblica sociale.

Un lavoro poderoso che, a dispetto del titolo, traccia un ritratto a tutto tondo di Marchesi, riassumendo e coronando un interesse che dura da almeno 35 anni: “Già nel 1985 avevo pubblicato un libro piuttosto ampio, La sentenza, sul rapporto tra Marchesi e Giovanni Gentile e sul ruolo del primo nell’uccisione del filosofo – ricorda il filologo e storico barese, oggi docente emerito presso l’università del capoluogo pugliese –. In seguito non ho mai smesso di indagare sulla figura politica e culturale di Marchesi”.

Di lui la attira più il lato politico o quello intellettuale?

“Direi che le due cose sono inscindibili. Per giunta faccio più o meno il suo stesso mestiere, e Marchesi è stato uno dei pochi classicisti con una testa non soltanto tecnica. Inoltre ha svolto un ruolo politico estremamente importante”.

Eppure, come riportato nel libro, all’inizio i servizi americani lo schedano come “personalità di secondo piano” all’interno del Partito Comunista Italiano.

“Il secondo piano non è poco, se il primo è rappresentato da personalità come Togliatti, Secchia e Longo. Anche gli americani comunque all’inizio si fondano su informazioni parziali. In realtà, soprattutto durante i 10 mesi in Svizzera, l’attività di Marchesi è determinante, al punto da essere percepito all’esterno come il vero capo del Pci. Così lo considerano altri esuli importanti, come Luigi Einaudi e Tommaso Gallarati Scotti, e gli stessi Alleati, che trattano con lui gli aiuti ai partigiani delle Brigate Garibaldi”.

Una vera e propria leadership…

“Che in realtà non avrà mai, ma che in quel momento è giustificato dall’assenza di un vero capo nel nord Italia. Togliatti infatti arriva a Napoli a fine marzo del ’44, ma quello che succede nel Regno del sud non è immediatamente noto nella Repubblica Sociale e in Ticino. Così viene accreditata la figura di Marchesi, che in fondo ha aderito al Partito Comunista fin dalla fondazione ed è riconosciuto come intellettuale di grandissimo livello. E questo nonostante la sua posizione sia difficilissima, dato che in Svizzera il partito comunista è fuori legge dal 1940; mentre altri esuli di spicco come Einaudi o Montanelli sono trattati benissimo lui subisce uno stretto controllo militare, gli tolgono il passaporto e il porto d’armi, deve continuamente giustificare i suoi movimenti presso le autorità”.

In Svizzera il ruolo di Marchesi è determinante al punto da essere percepito all’esterno come il vero capo del Pci

In che rapporti è con il Partito?

“All’inizio del suo rettorato molto difficili. Il Pci vuole che si dimetta subito; lui rimane ed anzi fonda il Cln veneto. In quel momento quindi la sua rete di relazioni è costituita più dal Partito d’azione che dai comunisti. In seguito, anche per ricompensarlo dei servizi svolti per il partito, Togliatti gli darà molto spazio nei lavori della Costituente, e per il Pci rimarrà comunque un’autorità morale, con una grande influenza sul mondo universitario e culturale: è ad esempio nella giuria del premio Viareggio, le case editrici se lo contendono, e questo giova sicuramente ai comunisti”.

Non sempre però si conformerà alla linea del partito.

“Con Togliatti ad esempio viene in attrito durante la discussione sull’art. 7 della Costituzione (che riconosce il ruolo della Chiesa Cattolica e i Patti lateranensi, ndr). Per Marchesi inoltre, a differenza che per Togliatti, il fascismo non è mai morto: lo dichiara ad esempio nel ’49, nel dibattito alla Camera in occasione degli incidenti accaduti durante un comizio di Almirante. Togliatti invece tendeva a dare più fiducia alla Dc”.

A Padova Marchesi è ricordato soprattutto come il rettore della Resistenza.

“Il suo ruolo è importantissimo, fin da prima di assumere la carica. Sfruttando il rapporto con il ministro Carlo Alberto Biggini, che lo protegge, riesce ad esempio a salvare moltissimi studenti dall’arruolamento e dalla deportazione Germania, difendendo a spada tratta l’autonomia dell’università. Si rivela poi geniale nel dare avvio al Cln veneto dietro il paravento del rettorato, con Egidio Meneghetti e Silvio Trentin del Partito d’azione. E quando alla fine deve scappare viene messo in salvo dal cattolicissimo Ezio Franceschini”.

E il famoso discorso in aula magna a Palazzo Bo, nel quale chiama gli studenti alla sollevazione?

“In realtà è dirompente non tanto il discorso del 9 novembre, abilissimo al punto da essere accettato in un primo momento anche dai fascisti, che non lo capiscono: il vero colpo di scena è l’appello del 1° dicembre alla lotta armata, lanciato quando si trova ormai nella clandestinità, che fa scalpore proprio perché firmato da un rettore. Una cosa enorme, che fa letteralmente impazzire le autorità repubblichine e naziste e che si diffonde a tempo di record in tutto il nord Italia. Pensiamo solo che viene pubblicato con enfasi immensa anche da Il Popolo, il quotidiano clandestino della Dc: un segnale tra i tanti della sua efficacia”.

Per Marchesi, a differenza che per Togliatti, il fascismo non era mai morto. E forse aveva ragione

Che idea si è fatta di Marchesi come politico e accademico?

“Come politico dimostra una capacità analitica e un fiuto politico non così diffusi tra i professori. E forse si può dire che, tra Togliatti e lui, in fondo è lui ad avere ragione: anche oggi infatti il pericolo fascista continua ad esistere. Come studioso compie ricerche fondamentali, ad esempio su Tacito, e come docente riscuote grandissimo successo con la sua Storia della letteratura latina, che in realtà è una storia del mondo latino. In questo è un punto di riferimento, al pari di De Sanctis per la letteratura italiana”.

E dal punto di vista umano?

“Dirlo è ovviamente più delicato. È evidente che si tratta di un uomo all’antica, con pregiudizi e ombre nella vita familiare, e se vogliamo anche nei difficili e a volte ambigui rapporti con il fascismo. Bisogna però mettersi nei suoi panni, negli anni in cui Mussolini sembra avere stravinto e il partito comunista dissolto. Questo spiega tante cose e ci aiuta a capire perché la sua mentalità lo spinge ad optare per l’entrismo come unica possibile forma di lotta. La stessa strategia di chi, come Eugenio Curiel, scrive su Il Bo – organo di stampa del Guf, Gruppo universitario fascista – di problemi che il regime può in qualche modo accettare, tentando allo stesso tempo di inserirvi istanze nuove e sovversive”. 

Nel libro viene messo in evidenza come i suoi studi si intreccino con l’evoluzione della sua coscienza politica…

“Certo. Facciamo un esempio pratico e veloce: la vittoria del fascismo in Italia e di Hitler in Germania lo inducono a inserire nel 1936 nella sua Storia della letteratura latina una nuova pagina su Cesare, in cui scrive che Caio Gracco viene sconfitto perché non ha un esercito, mentre Cesare vince perché ha con sé i soldati e non è costretto a inseguire elettori inutili e incostanti. I fatti insomma lo convincono che la lotta armata sia da preferire alla via parlamentare. Così, tra la prima edizione del ’25 e l’ultima del ’53, Marchesi non fa che rielaborare e arricchire il testo a seconda degli avvenimenti politici che si trova a vivere”.

Anche lei, del resto, non è alieno a questi paralleli tra la storia antica e la contemporaneità…

“Un crociano ortodosso direbbe che la storia è sempre contemporanea, anche se in realtà lo aveva già detto Tucidide. Abbiamo insomma potenti alleati”.

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