SCIENZA E RICERCA

Covid-19, la virologa Vicenzi: "Il virus circola ancora, serve cautela anche all'aperto"

Nonostante l’aiuto della stagione favorevole, con l’estate che ci porta a vivere meno in spazi chiusi, i focolai che negli ultimi giorni hanno interessato diversi Paesi dell’emisfero settentrionale stanno ad indicare che il virus SARS-CoV-2 è ancora presente e che se ogni caso non viene tempestivamente arginato l’infezione rischia di tornare ad accelerare.

La situazione della Germania, con il focolaio che si è sviluppato tra i lavoratori del mattatorio Toennies a Guetersloh nel Nord-Reno Westphalia, con oltre 1500 positivi, è sicuramente peculiare perché avvenuto in un ambiente che a causa della bassa temperatura, della difficoltà di distanziamento e della necessità di parlare ad alta voce, favorisce la diffusione del virus. Un’industria alimentare è coinvolta anche in un focolaio che sta interessando Leicester, in Inghilterra, e che ha spinto le autorità a decidere per il lockdown della città. Ed è salito a 34 il numero di positivi di un focolaio in un macello di Viadana, in provincia di Mantova. Ma anche in Portogallo, in particolare nei dintorni di Lisbona, il numero quotidiano di contagi tende all’aumento e nella capitale sono state nuovamente introdotte alcune misure di contenimento, come l’anticipo dell’orario di chiusura di bar e ristoranti, la riduzione del numero di persone che possono riunirsi in gruppo e soprattutto un nuovo lockdown per gli abitanti di19 quartieri della periferia nord di Lisbona che dal primo luglio possono uscire di casa solo per andare al lavoro o per situazioni di necessità.

Una ripresa dei contagi è stata rilevata anche nei Balcani, dove ha fatto discutere il torneo di tennis Adria Tour, organizzato in Serbia e in Croazia da Novak Djokovic. Il campione è risultato poi positivo al Covid-19 e lo stesso è accaduto a diversi altri atleti e membri dello staff tecnico.

Dall’altra parte del mondo c’è la situazione drammatica del Sud America, dove si sono superati i 2 milioni di casi, e quella degli Stati Uniti dove il virus persiste anche nei territori più caldi. E proprio la difficoltà a tenere sotto controllo la pandemia ha portato all’esclusione degli Stati Uniti, oltre che di Russia e Brasile, dalla lista dei Paesi i cui cittadini potranno rientrare nella Ue a partire dall'1 luglio, da quando cioè sono state riaperte le frontiere esterne alla stessa Ue. Quanto alla Cina, dopo la paura a Pechino per il focolaio nell’enorme mercato di Xinfadi le autorità hanno deciso di creare un cordone di sicurezza intorno alla capitale e hanno imposto il lockdown nella contea di Anxin, a circa 150 chilometri da Pechino. Solo una persona per famiglia potrà uscire, non più di una volta al giorno, per comprare alimenti e medicine.

In Italia non si registrano al momento particolari criticità ma, oltre al focolaio di Viadana citato in precedenza, negli ultimi giorni sono stati diversi i focolai rilevati, come quello in una ditta di logistica del bolognese, quello che ha interessato due attività di ristorazione di Fiumicino e quello che si è diffuso a Mondragone in una comunità di braccianti agricoli, in questo ultimo caso con la creazione di una zona rossa, poi prolungata fino al 7 luglio, non senza momenti di tensione. Esempi che confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che il virus non è sparito né ha perso il suo potenziale contagioso.


E’ indiscutibile che la malattia al momento tenda a presentarsi in forma molto meno grave e va anche sottolineato che una quota consistente dei nuovi casi positivi rilevati con il tampone riguarda persone che avevano effettuato un test sierologico da cui era emerso lo sviluppo degli anticorpi al SARS-CoV-2. Si tratta quindi di soggetti che avevano contratto l’infezione in forma asintomatica o paucisintomatica e la cui carica virale attuale rappresenta la coda di un contagio passato. 

Guardando al continente europeo nel suo complesso la tendenza sembra quella ad una risalita, seppure ancora non vertiginosa, dei casi di contagioDati che hanno portato Hans Kluge, direttore regionale per l'Europa dell'Oms, ad esprimere preoccupazione: "La scorsa settimana - ha dichiarato - l'Europa ha visto un aumento dei casi settimanali di Covid-19 per la prima volta da mesi. Per settimane ho parlato di questo rischio e in diversi paesi in Europa, questo rischio è diventato realtà”. In particolare “In 11 paesi - ha aggiunto - la trasmissione accelerata ha portato a una ripresa molto significativa che, se non controllata, spingerebbe di nuovo i sistemi sanitari sull'orlo della crisi”. In una nota alla stampa Hans Kluge ha aggiunto che nella maggior parte dei paesi europei la situazione durante l’estate dovrebbe migliorare ma ha anche avvertito che “dobbiamo davvero prepararci all'autunno, quando COVID-19 potrebbe incontrare anche influenza stagionale, polmonite, altre malattie, perché alla fine il virus circola ancora attivamente nelle nostre comunità e non esiste ancora alcun trattamento efficace, nessun vaccino efficace”. 

Nei giorni scorsi intanto l’Oms ha rivisto le linee guida sulle modalità che “certificano” la guarigione: per uscire dall’isolamento non sarà più necessario un doppio tampone negativo ma, dopo dieci giorni dalla diagnosi, basterà aspettare tre giorni dalla fine del sintomi della malattia. Una decisione che sicuramente farà tirare un sospiro di sollievo a quelle persone, per fortuna i casi non sono numerosissimi, bloccate nella propria abitazione per oltre due mesi perché, seppure guarite da ogni sintomo, risultavano ancora positive al tampone. Sulle nuove linee guida, suggerite dall’Oms soprattutto in contesti dove per motivi di scarsità di risorse il prolungamento dell’ospedalizzazione e dell’isolamento in casa fino a secondo tampone negativo potrebbe impedire una corretta gestione dei casi più gravi, spetta adesso ai vari paesi effettuare le proprie valutazioni: in Italia il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto approfondimenti al Comitato tecnico-scientifico, ma il dibattito che più prende corpo è quello che riguarda la minore aggressività della malattia

Un’evidenza a livello clinico, con gli ospedali che si sono quasi del tutto svuotati da pazienti COVID-19. Molto meno a livello di sequenze genetiche del virus dove non sono state ancora osservate mutazioni che possano avere reso il SARS-CoV-2 un patogeno inoffensivo. E il confronto si estende al tema della carica virale: secondo alcuni scienziati andrebbero ridefinite le soglie di positività. Altri insistono maggiormente sul fatto che la minore carica virale riscontrata attualmente nei tamponi dipende dall’uso delle mascherine e dal fatto che si è profondamente modificato il profilo medio dei pazienti sottoposti al tampone: non più solo casi gravi, ma persone individuate attraverso campagne di screening o a seguito di test sierologico. E un altro elemento certamente non trascurabile è rappresentato dal fattore tempo, vale a dire in che momento del decorso dell’infezione viene effettuato il tampone. 

Il tema è indubbiamente complesso così come sono ancora molti gli aspetti di questa malattia che sfuggono a un’interpretazione definitiva. Abbiamo voluto riflettere su alcuni dei tanti interrogativi legati al virus SARS-CoV-2 insieme alla virologa Elisa Vicenzi, Capo dell'unità di ricerca in Patogenesi virale e biosicurezza dell'Ospedale San Raffaele di Milano, che recentemente era stata anche ospite di uno degli appuntamenti di “Viaggio al centro della scienza”, ciclo di 5 conferenze organizzato dalla Fondazione città della speranza e condotto da Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova e direttrice dell’Istituto di Ricerca Pediatrica della Fondazione.

Con Elisa Vicenzi siamo partiti dallo scenario europeo per capire cosa sta accadendo e come occorre agire per evitare una seconda ondata anticipata. E poi cosa bisognerà fare quando entreremo nella stagione invernale e saremo costretti a trascorrere più tempo in spazi chiusi? Ma abbiamo anche riflettuto sulle informazioni disponibili a livello di sequenze genetiche del virus SARS-CoV-2, sulla carica virale, sulla durata della protezione anticorpale per le persone che hanno già superato l'infezione e sulle terapie che ad oggi, in assenza di farmaci antivirali specifici, hanno contraddistinto l'approccio terapeutico. 
 

Intervista alla virologa Elisa Vicenzi, Capo unità di ricerca in patogeni virali e biosicurezza dell'ospedale San Raffaele di Milano. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

“Certamente posso dire - commenta la virologa Elisa Vicenzi - che mi sembra evidente che il virus non si sia estinto e non sia sparito. Il virus sta ancora circolando e siamo in una situazione di un incendio che è spento ma non completamente: ci sono ancora dei focolai che stanno emergendo e come sappiamo riguardano anche condizioni particolari. Mi riferisco alla situazione della Germania nei macelli che sono un ambiente molto a rischio a causa del freddo e della catena di lavoro. Ovviamente è importantissimo intervenire immediatamente, identificare i focolai per poter mettere in isolamento le persone infettate e in quarantena i contatti. Io penso che l’esperienza dei mesi precedenti ci abbia insegnato molto perché sappiamo come intervenire: quando una persona presenta sintomi di Covid, e ormai i sintomi vengono identificati molto bene perché si conoscono, a questa persona deve essere immediatamente fatto un tampone e occorre avere i risultati in tempo reale per eventualmente isolarla il prima possibile. Poi è preoccupante la situazione del Sud America, del Brasile in particolare, dove i casi stanno aumentando in maniera esponenziale e tra l’altro questo sta accadendo anche nella regione del nord che è quella più calda. Quindi il virus circola anche in paesi tropicali e l’elemento di rischio più importante che tengo a sottolineare è, a mio avviso, l’affollamento. Le situazioni di affollamento, non solo al chiuso ma anche all’aperto possono essere rischiose. In particolare all’aperto si tende a sottovalutare il pericolo perché è vero che l’aria circola ma se siamo assembrati introduciamo un elemento di rischio molto importante che va valutato e quindi ciascuno di noi deve cercare di evitare i posti affollati”.

E se la cautela è opportuna anche negli spazi aperti occorrerà ancora più prudenza quando al termine dell’estate diminuiranno le occasioni per stare all’esterno. “Con la stagione più fredda - approfondisce la dottoressa Vicenzi - dovremo fare particolare attenzione ai posti chiusi. Al riguardo ci sono ormai vari studi pubblicati che dimostrano che il ricircolo dell’aria può facilitare la trasmissione del virus e per questo sono posti realmente pericolosi. Se c’è una persona infetta in un posto chiuso in cui l’aria ricircola il rischio che altre persone si infettino è molto alto. Per questo motivo dovremo indossare la mascherina, curare l’igiene delle mani e mantenere tutte queste precauzioni almeno per la prossima stagione invernale”. E poi c’è un altro punto molto importante: “quando una persona ha dei sintomi influenzali deve stare a casa, non può andare al lavoro o in giro perché questo virus, a differenza di quello della SARS, si trasmette durante il periodo asintomatico e soprattutto in fase presintomatica quando uno non sa di essere infettato. All’insorgenza dei sintomi è fondamentale stare a casa e siamo già forse anche in ritardo. Però almeno andiamo a contenere, anche perché la trasmissione del virus avviene tra le 24 e le 48 ore prima dell’esordio dei sintomi e poi c’è un picco nei primi giorni di comparsa dei sintomi, che non necessariamente sono quelli gravi della polmonite, però è un periodo molto cruciale in cui dobbiamo stare particolarmente attenti”.

Se l’infezione rimane però asintomatica l’identificazione dei casi è più complessa e “per questo motivo l’uso della mascherina è importantissimo perché ovviamente fa sì che una persona infetta che non sa di esserlo non trasmetta o trasmetta comunque meno virioni infettivi alla persona che le sta vicino, che dovrebbe restare a una distanza di almeno un metro ma due metri è ancora meglio, e protegge anche chi è a più stretto contatto”.

Sul legame tra bassa carica virale e minore infettività ci sono già studi che vanno in questa direzione. A questa conclusione è arrivato ad esempio un lavoro, pubblicato in aprile su Nature, del virologo Christian Drosten della Charité di Berlino e di alcuni suoi colleghi di Monaco e Cambridge. Elisa Vicenzi ce lo conferma: “certamente avere delle cariche virali basse presuppone che il paziente sia meno contagioso. Voglio precisare un aspetto: nel tampone si misura la quantità di RNA virale, però teniamo conto che dati sperimentali in vitro suggeriscono che per ogni unità infettante, quindi per ogni virione infettivo, ci sono mille molecole di RNA associate a virioni difettivi. Un rapporto uno a mille. Questo vuol dire che se in un tampone, faccio un esempio, misuro 1.000 copie di RNA ho la probabilità che vi sia un unico virione infettivo. Se invece misuro 10.000 copie avrò dieci virioni infettivi e così via. E’ quindi chiaro che avendo meno RNA nel tampone ho meno virus infettivo, proprio per questo rapporto uno a mille tra virus infettivo e quantità di RNA associata al tampone”.

La virologa dell’Ospedale San Raffaele precisa però che “un aspetto importante che ancora non è stato definito dalla ricerca scientifica è quale sia la dose infettante, quanto virus è necessario affinché si trasmetta da una persona ad un’altra. Questo è un dato fondamentale che potrà essere affrontato solo con dei modelli animali: sono in atto degli studi in cui si infetta sperimentalmente un animale con una carica virale nota e lo si mette a stretto contatto con altri animali in gabbia, con filtri che simulano le mascherine. A quel punto si va a misurare quanto virus replica nell’apparato respiratorio superiore degli animali e si potrà quindi stabilire, almeno nel modello animale, qual è la carica infettante necessaria per la trasmissione del virus”.

In merito al fatto che attualmente ci siano molti tamponi debolmente positivi Vicenzi sottolinea che “occorrerebbe sapere a quali tipologie di pazienti appartengono i nuovi casi positivi visto che sappiamo che la popolazione più a rischio sono le persone anziane e quelle con altre patologie (comorbidità)”. Inoltre, molti dei nuovi casi identificati come positivi riguardano soggetti sottoposti al tampone a seguito di un test sierologico e quindi “infezioni vecchie che hanno fatto il loro percorso e la quantità di RNA che si trova nel tampone è il residuo rimasto dall’infezione passata”.

E sulle nuove linee guida dell’OMS che non vincolano più la fine dell’isolamento all’esecuzione di un doppio tampone negativo Elisa Vicenzi non individua criticità. “Credo - commenta - che l’OMS sia giunta a queste conclusioni esaminando gli studi scientifici che hanno correlato la quantità di RNA infettivo con la capacità di infettare. Se l’OMS è arrivata a questa conclusione penso che sia giusto seguire le indicazioni”.

Su un aspetto però c’è certezza: il virus non è mutato in una forma che lo abbia reso meno aggressivo. “Da un punto di vista genetico - approfondisce la virologa Elisa Vincenzi - dalle mutazioni avvenute nel virus non ci sono evidenze che il virus si sia attenuato, si sia indebolito. Consideriamo che nel database ci sono oltre 40 mila sequenze e pochissime presentano delle delezioni che possono essere un indizio di attenuazione. Però queste mutazioni non si sono "fissate, cioè affermate tra le varie varianti virali circolanti e questo vuol dire che per il virus non c’è un vantaggio nel mantenerle. Dobbiamo invece considerare che esiste una mutazione particolare presente nella proteina Spike, che è la proteina dell’envelope che conferisce la tipica forma di coroncina dei coronavirus da cui deriva il loro nome. Questa proteina lega il recettore cellulare ACE2 e permette al virus di entrare nella cellula e infettarla. In questa proteina è emersa una mutazione peggiorativa, nel senso che va a stabilizzare la proteina rendendo più infettiva la particella virale. Dobbiamo però precisare che questi sono risultati sperimentali in vitro e quindi l'importanza di questa mutazione va dimostrata in vivo".

Da un punto di vista genetico, dalle mutazioni avvenute non ci sono evidenze che il virus si sia indebolito

"La storia di questa mutazione - prosegue Vicenzi - ci dice che non era presente in Cina fino all’1 marzo 2020: in seguito l’emergenza in Cina è diminuita e quindi non sono più emerse sequenze. Questa mutazione è però stata individuata nelle sequenze europee, in maniera predominante, soprattutto in Italia e in Svizzera. Di fatto l’abbiamo trovata già nel paziente di Codogno e attualmente poi questa mutazione è presente anche nei virus che stanno circolando in Nord America. Non sono a conoscenza se sia presente anche nel Sud America, dovrei vedere le sequenze, ma a quanto mi risulta la prima sequenza brasiliana era molto simile a quella italiana, infatti sembra che sia stata una trasmissione italo-brasiliana. Il concetto è che se questa mutazione conferisce un vantaggio al virus, perché lo rende più contagioso e trasmissibile, certamente il virus tenderà a mantenerla. E magari potrebbero emergere anche mutazioni tali per cui il virus tenderà a diffondersi e ad essere contagioso, ma meno patogenico, a causare una forma meno grave di malattia. E’ il modo con cui si va poi ad annidare nell’uomo e a persistere. Quindi al momento attuale mutazioni di attenuazione direi che non ne esistono, semmai sono mutazioni che aumentano la contagiosità. Personalmente penso che con questo virus siamo stati un po’ più sfortunati rispetto al virus della SARS del 2003 che nello stesso lasso di tempo di 7-8 mesi ha infettato circa 8 mila persone con un indice di letalità del 10%. Però durante la trasmissione del virus da uomo a uomo nel caso della SARS sono avvenute delle mutazioni di attenuazione che forse hanno contribuito alla sua scomparsa, anche se le misure di lockdown furono indispensabili per interrompere la trasmissione”.

Per concludere abbiamo chiesto all’esperta del San Raffaele una riflessione sugli aspetti del virus SARS-CoV-2 che continuano ad essere in parte misteriosi e sui passi avanti che sono stati compiuti in questi mesi a livello di esperienza nella gestione dei pazienti e identificazione delle terapie più indicate. “Conosciamo ancora veramente poco di questo virus. Rispetto al virus della SARS presenta delle similitudini e delle diversità. L’aspetto interessante è che entrambi usano lo stesso recettore ACE2 per entrare nelle cellule, però l’affinità, la potenza del legame del SARS-CoV-2 al recettore è più alta rispetto al virus della SARS. E' possibile che questo faciliti la capacità di infezione. Però questo non spiega ancora molti aspetti. Penso che ci sia ancora molto da imparare sulla risposta immunitaria al virus. Dobbiamo considerare che si determina una prima fase molto guidata dal virus, in cui le cellule dell’individuo colpito cercano di contrastare l’infezione utilizzando i meccanismi di immunità innata che normalmente ci proteggono. Sono però meccanismi che non conosciamo ancora nel dettaglio dal punto di vista molecolare. E poi c’è l’immunità adattativa, più specifica, in cui sono prodotti gli anticorpi antivirali, che serve ad eliminare il virus e anche su questo sappiamo ancora poco. Dopo la parte iniziale in cui l’ospite cerca di combattere il virus, se il sistema immunitario non agisce efficacemente può accadere che la risposta immunitaria sia peggiorativa, che sia esagerata e vada poi a scatenare una reazione infiammatoria con polmonite e complicanze a livello di coagulazione. Però ancora non conosciamo precisamente i meccanismi molecolari e dobbiamo assolutamente indagarli, possibilmente confrontandoli in vitro con quelli indotti dal virus della SARS". 
Quanto alla durata dell’immunità delle persone che sono già entrare a contatto con il nuovo coronavirus sembra purtroppo essere limitata nel tempo. “La protezione anticorpale - conferma la dottoressa Elisa Vicenzi - non sembra persistere per lungo tempo. Assomiglia un po' a quella dei coronavirus che causano il raffreddore e dal momento che gli anticorpi non durano per la vita c’è la possibilità realistica di reinfettarsi”. 

Sul fronte delle terapie “sicuramente - conclude la virologa del San Raffaele - non abbiamo antivirali efficaci. L’unico antivirale che ha dimostrato una certa efficacia è il Remdesivir che viene somministrato nei pazienti ospedalizzati e sembra ridurre il tempo di ospedalizzazione. Mi sembra però un effetto abbastanza modesto, inoltre è un farmaco che va somministrato per via endovenosa ed è di difficile gestione. Ci sono altri farmaci antivirali in sperimentazione ma è troppo presto concludere che saranno importanti nella gestione dei pazienti. La strategia che si sta usando per accelerare i tempi è trovare nuove molecole è quella che si chiama drug repurposing, ossia testare se farmaci utilizzati per altri scopi terapeutici, e che quindi hanno fatto tutto il percorso della sperimentazione clinica, hanno attività antivirale, com’è stato il caso del Remdesivir che fu messo a punto per contrastare Ebola. Da un lato è un processo breve perché nel caso in cui se ne identifichi uno adatto non si deve poi fare la sperimentazione clinica, dall’altro lato però la probabilità di trovarne uno veramente efficace non è così alta. Dal punto di vista del trattamento delle persone con malattia grave sicuramente ci sono stati effetti importanti nell’uso del cortisone, soprattutto somministrato nella seconda parte infiammatoria quando non è più il virus a dettare legge ma è la reazione dell’ospite al virus che danneggia l’ospite stesso. L’altro farmaco importante è stata l’eparina perché inaspettatamente, cosa che non si è vista con il virus della SARS, si sono manifestate in molti casi complicazioni tromboemboliche provocate da un’eccessiva coagulazione. Quindi l’eparina è stata sicuramente molto utile in questo senso. Poi ci sono sperimentazioni con diversi anticorpi monoclonali contro le citochine che hanno dato dei risultati interessanti, ma bisogna aspettare le sperimentazioni cliniche controllate e con grossi numeri. Uno dei problemi che abbiamo avuto è che sono state fatte molte sperimentazioni, ma in parecchi casi senza raggiungere una potenza statistica adeguata e quindi alla fine sono rimasti solo studi suggestivi di un effetto che andrà validato da studi più ampi. Servono quindi studi che coinvolgano un numero sufficiente di persone affinché si possa arrivare ad una significatività dei risultati”. 

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