SOCIETÀ

Elezioni di midterm USA: i Repubblicani guadagnano terreno ma non sfondano

Era stato annunciato come uno tsunami, poi declassato a “onda rossa” (come il colore dei Repubblicani). Alla fine il meteo politico delle elezioni di midterm ha prodotto un “mare poco mosso” che probabilmente non cambierà di molto le carte in tavola nella politica americana. Certo, la maggioranza alla Camera è passata nelle mani del GOP (Grand Old Party, come viene chiamato negli Stati Uniti il Partito Repubblicano), tuttavia non con le proporzioni pronosticate alla vigilia. E al Senato si balla ancora sul filo del rasoio (lo spoglio è ancora in corso in Arizona e in Nevada, decisivo sarà il ballottaggio in Georgia, il prossimo 6 dicembre). In sintesi: sembra che i Democratici abbiano resistito. Per Joe Biden si tratterebbe di una “non sconfitta” che con qualche eccesso di ottimismo si potrebbe anche leggere come una vittoria: storicamente, alle elezioni di medio termine, il partito del presidente in carica perde dai 25 ai 30 seggi alla Camera (dovrebbe averne persi 7 o 8, lo spoglio è ancora in corso) e una manciata di seggi al Senato (dove ne ha addirittura guadagnato uno). Il che potrebbe addirittura tramutarsi in un lasciapassare per una sua nuova candidatura nel 2024. Invece per Donald Trump, in caso di mancata conquista del Senato, sarebbe una sconfitta, lui che aveva caricato la tornata elettorale come un’anteprima del suo prepotente ritorno sulla scena, lui che alla vigilia aveva auspicato un “umiliante rimprovero per i Democratici”, sperando in risultati ben più ampi (aveva perfino organizzato una festa nella sua residenza di Mar-a-Lago, a Palm Beach) che lo avrebbero legittimato come asse portante del progetto repubblicano per il 2024: non è andata così.

Sconfitto il “vetriolo” di Trump

Trump, di fatto, non ha più il partito in mano. La vittoria netta del suo competitor interno, l’italoamericano Ron DeSantis, riconfermato governatore della Florida, complica e molto i piani dell’ex presidente. Perché la sfida per la candidatura del 2024 sarà con ogni probabilità tra loro due: e DeSantis, 44 anni, definito dal Financial Times “Trump with brains” (il Trump con il cervello) parte tutt’altro che sconfitto. Talmente infastidito, Trump, da lanciare velate minacce preventive contro il suo potenziale competitor: «Se dovesse correre (per le presidenziali repubblicane) potrebbe farsi male, molto male. E su di lui potrei rivelarecose poco lusinghiere». La repubblicana Liz Cheney ha definito i risultati «una chiara vittoria per il “Team Normal” e un rifiuto della tossicità, dell’odio, del vetriolo e di Donald Trump. Noi crediamo nella democrazia. Crediamo nel difendere la Costituzione e la Repubblica». «In termini personali - spiega il Financial Times - il matchup sarebbe una gara tra diametralmente opposti. Uno, Trump, è un Giove caotico governato dall’istinto e dall’intuizione, mentre l’altro, DeSantis, è un avvocato disciplinato che setaccia risme di dati e statistiche prima di fare un freddo calcolo. Uno è coccolato da un entourage e da ricchezze ereditate, l’altro solitario e autocostruito. Uno è un donnaiolo, l’altro un padre di famiglia». Oggi i sondaggi quotano Trump, ma due anni sono un’eternità: le cose potrebbero cambiare.

Stati Uniti spaccati a metà

L’elezione di midterm si è giocata su alcuni punti chiave molto ben definiti, a partire dall’inflazione indiscutibilmente alta, attorno all l’8%, che ha portato rincari, oltre a gas e benzina, sia nel settore alimentare sia in quello immobiliare. Un argomento immediatamente cavalcato, senza troppe cortesie, dai Repubblicani, che hanno denunciato come sprechi le “spese incontrollate” della Casa Bianca per le iniziative sul clima (350 milioni di dollari stanziati), per i sussidi a favore dei più fragili e vulnerabili e per garantire assistenza nei casi di Covid (circa duemila miliardi di dollari), oltre ai 280 miliardi investiti nella ricerca. «A ogni americano deve essere posta questa domanda: “Potresti permetterti di rinunciare a un mese del tuo stipendio?” Il novantacinque per cento degli americani dirà di no. Ma questo è ciò che i Democratici ti hanno tolto. Perché un mese del tuo stipendio è l’8,3% del tuo anno complessivo». Ma altri due temi hanno condizionato il voto. Il primo è l’aborto, sulla scia della clamorosa e controversa decisione della Corte Suprema, lo scorso giugno (5 voti a favore, 4 contrari), che ha definito il diritto all’aborto “non più protetto dalla Costituzione degli Stati Uniti”. E dunque non più un diritto federale, con la questione che è passata sotto la competenza dei singoli governatori. I Democratici hanno denunciato il proposito dei Repubblicani di limitare le scelte delle donne. In cinque stati si sono tenuti referendum: California, Michigan, Vermont, Kentucky e Montana. Ed è stato un plebiscito: un sonoro no alle limitazioni al diritto all’aborto.

E poi c’è il vero tema centrale di questa tornata elettorale: la questione della difesa della democrazia in sé, del rispetto delle regole democratiche, al punto che gli stessi esponenti del Partito Democratico americano avevano denunciato la massiccia presenza di estremisti tra i candidati repubblicani (definiti “semifascisti”), soprattutto tra gli estimatori di Donald Trump, i cosiddetti “MAGA Republicans” (dall’acronimo di Make America Great Again, slogan trumpiano del 2016). Lo stesso Biden, sul punto, aveva affondato il colpo, forte anche dello sdegno e delle polemiche seguite all’assalto a Capitol Hill, sede del Campidoglio, del 6 gennaio 2021, un attacco senza precedenti alle istituzioni americane, sulla scia delle elezioni perse da Trump. E sono centinaia i candidati a cariche pubbliche del GOP che, ancora oggi, non ammettono la legittimità del voto del 2020. «Donald Trump e MAGA Republicans rappresentano un estremismo che minaccia le fondamenta stesse della nostra repubblica. Se dovessero prendere il controllo del Congresso, l’uguaglianza e la democrazia sarebbero sotto attacco», aveva dichiarato Biden.

Un’ondata antidemocratica senza precedenti

Difficile dar torto a Biden, o derubricare le sue insinuazioni come calunnie, o come eccessi verbali dovuti all’enfasi della campagna elettorale. L’avvento di Donald Trump, che ha immediatamente trovato un sostanzioso seguito, ha portato all’interno del Partito Repubblicano e degli stessi Stati Uniti un’ondata antidemocratica senza precedenti. Scriveva pochi giorni fa il magazine The Atlantic, in un reportage dai toni allarmati e allarmanti: «Se i Repubblicani vinceranno il controllo di una o entrambe le camere del Congresso, probabilmente inizieranno un progetto che potrebbe rimodellare il panorama politico e legale della nazione: imponendo agli stati blu (Democratici) il ritiro dei diritti civili e delle libertà che è rapidamente avanzato attraverso gli stati rossi (Repubblicani) dal 2021. Negli ultimi due anni, i 23 stati in cui i Repubblicani detengono il controllo unificato del governatorato e della legislatura statale hanno approvato l’ondata di legislazione socialmente conservatrice più aggressiva dei tempi moderni. Gli stati controllati dal GOP hanno approvato leggi che vietano o limitano l’accesso all’aborto, riducendo i diritti LGBTQ, rimuovendo i requisiti di licenza e formazione per il porto di armi da fuoco, censurando il modo in cui gli insegnanti delle scuole pubbliche (e in alcuni casi professori universitari e anche datori di lavoro privati) possono parlare di razza, genere e orientamento sessuale». La scorsa settimana, nel presentare le elezioni, Emily Tamkin scriveva sulla rivista britannica New Statesman: «Un tempo la negazione elettorale di Donald Trump era un'aberrazione. Ora è una diffusa strategia repubblicana. E quindi se dovessero vincere i Repubblicani, la domanda non è solo se accetteranno i risultati delle future elezioni. È se gli Stati Uniti continueranno a tenere elezioni, ovvero elezioni legittime, che sono un processo democratico più grande di un semplice testa a testa tra due partiti».

Questo vuol dire che la sfida elettorale americana (ieri di midterm, nel 2024 per il controllo della Casa Bianca) si sta trasformando in qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato, che va ben oltre gli equilibri, e le alternanze, tra le due grandi “famiglie politiche” degli Stati Uniti. E che, nel caso di una nuova affermazione di Trump e dei suoi accoliti, potrebbe determinare nuovi e imprevedibili riposizionamenti anche sul fronte dei rapporti internazionali: basti pensare alla Cina, alla Russia, alla posizione sull’Ucraina e più in generale con l’Unione Europea, fino ai rapporti con i principali paesi sudamericani (dal recente caso del Brasile al Cile, dal Perù alla Colombia), dove negli ultimi anni le forze di sinistra hanno dato vita a una nuova “pink tide”, una “marea rosa”, che sembra quasi suonare come una presa di distanza dell’intera regione alle politiche della destra americana (con lo stesso Trump che, appena nel 2019, riesumava la “dottrina Monroe” del 1823, secondo la quale gli Stati Uniti rivendicavano una “supremazia” sull’America Latina, con la pretesa di intervenire in qualsiasi nazione a sud dei suoi confini). Insomma, molto del futuro si giocherà non tanto nello scontro tra Democratici e Repubblicani, quanto nel presumibile, probabile, testa a testa in casa repubblicana tra Donald Trump e Ron DeSantis, tra chi non si fa scrupoli di abbracciare l’estremismo bianco, stracciando perfino le basilari regole di buona condotta (ha appena definito la Presidente della Camera Nancy Pelosi “un animale” per averlo messo due volte sotto impeachment) e chi, sempre fieramente da destra, con tutti i capisaldi culturali della destra (sì alle armi, no ai diritti degli omosessuali, no all’aborto dopo le 15 settimane) si propone come un esempio di serietà e di scrupolosa affidabilità.

Quanto al rispetto delle regole democratiche, è ormai evidente che Trump, se avesse via libera, potrebbe ribaltare il tavolo. Su DeSantis è presto per pronunciarsi, per capire se davvero ha in mente un partito liberal-conservatore che contempli la tutela dei processi democratici, in grado di garantire elezioni libere, senza inquinamenti. Che poi sono i principi di base delle democrazie. Mancano ancora due anni alla sfida per la Casa Bianca: nel frattempo i Democratici farebbero bene a non adagiarsi troppo sugli allori (che non ci sono: il voto di midterm certifica comunque un ridimensionamento, anche mantenendo la parità in Senato) e soprattutto a fare chiarezza sul futuro. E sono in molti a chiedere di individuare una nuova figura che possa competere per la presidenza con maggiore solidità, e possibilità di rielezione, di Joe Biden.

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