SCIENZA E RICERCA

Nanomedicine in 4D per la diagnosi e la terapia del cancro

Sviluppare una nanomedicina per la diagnosi (risonanza magnetica o tac) e la terapia del cancro, che abbia come requisito principale la capacità di biodegradarsi, di non accumularsi nel corpo, limitandone in questo modo gli effetti collaterali. È questo il progetto a cui sta lavorando un gruppo di ricerca dell’università di Padova, che a distanza di due anni giunge ora ai primi risultati, dimostrando che nanoleghe a base di oro-ferro potrebbero essere i candidati ideali allo scopo. Lo studio, dal titolo 4D Multimodal Nanomedicines Made of Nonequilibrium Au–Fe Alloy Nanoparticles, è stato pubblicato recentemente su ACSNano.

Finora sono stati proposti diversi esempi di agenti terapeutici e di imaging nanometrici, ma la maggior parte di essi non possono essere impiegati in ambito clinico, sia per i rischi di tossicità, con esito talvolta letale, sia perché vengono trattenuti a lungo nel corpo. “Attualmente – spiega Vincenzo Amendola, docente del dipartimento di Scienze chimiche dell’università di Padova e coordinatore dello studio – non si usano nanomateriali come agenti di contrasto, ma composti molecolari. Per quanto riguarda la risonanza magnetica nucleare si usano dei chelati di gadolinio, che però possono accumularsi nei tessuti e stimolare delle risposte immunitarie o di tipo allergico. Hanno una biopersistenza limitata nel tempo e quindi costringono gli operatori a somministrare dosi molto elevate con possibili effetti collaterali a carico, per esempio dei reni, dove questi composti si accumulano prevalentemente nelle primissime ore dopo la somministrazione. C’è una casistica piuttosto importante di effetti collaterali legati all’accumulo degli agenti di contrasto molecolari utilizzati in clinica”. Per quel che riguarda, invece, i nanomateriali studiati come alternative il problema è opposto, dato che tendono ad accumularsi nell’organismo e restare lì per un tempo indefinito.

Guarda l'intervista completa a Vincenzo Amendola e Veronica Torresan, del dipartimento di Scienze chimiche dell'università di Padova, su nanomedicine in 4D. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Elisa Speronello

I ricercatori, dunque, si sono concentrati su nanomateriali 4D, che possiedono la capacità di cambiare forma, dimensione e struttura nel tempo e sono in grado di degradarsi e scomparire spontaneamente dopo l’uso. Ebbene, gli scienziati hanno dimostrato, sperimentalmente, che le nanoparticelle di leghe oro-ferro contenenti i due elementi in proporzioni di “non-equilibrio” possiedono tali caratteristiche. I test in vivo hanno dimostrato che queste nanoleghe possono essere impiegate come efficaci agenti di contrasto multimodali per la risonanza magnetica e la tomografia computerizzata ad assorbimento di raggi X (Tac) e, altresì, hanno provato la loro degradazione spontanea nel tempo, con una significativa riduzione dell'accumulo a lungo termine nel corpo, rispetto ai nanomateriali usati come mezzi di contrasto classici, a base di oro o ossido di ferro.

“Lo studio – spiega Vincenzo Amendola – è partito da un’investigazione di tipo computazionale-teorico per mostrare come delle nanoparticelle inorganiche a base di una lega di oro e ferro, due elementi biocompatibili e quindi particolarmente adatti per applicazioni in ambito biomedico, si devono disporre  per conferire la capacità di biodegradazione spontanea in un ambiente come quello di in un organismo vivente. Lo studio ci ha permesso di capire che è importante ‘costringere’ il ferro e l’oro a coesistere in proporzioni tali che normalmente non sarebbe possibile ottenere. Quindi, per risolvere questo problema, abbiamo adottato delle tecniche di sintesi laser in liquido che sono in grado di produrre nanoparticelle bimetalliche alle composizioni necessarie per ottenere la capacità di biodegradazione e le abbiamo testate tramite esperimenti svolti anche su modelli animali. Proprio nei modelli animali, abbiamo rilevato che tali nanoparticelle sono in grado di abbandonare l’organismo, dopo un periodo non eccessivamente lungo di alcune settimane, mentre materiali analoghi, cioè nanoparticelle a base solo di oro o solo di ossido di ferro, tendono a persistere per tempi molto più lunghi. L’oro in particolare, che è un materiale inerte, biopersiste per un tempo indefinito”. I test sono stati eseguiti su animali sani, e ora i ricercatori si stanno rivolgendo ad animali con modelli tumorali per capire di più delle loro potenzialità per imaging e radioterapia del cancro.

Veronica Torresan, del dipartimento di Scienze chimiche dell’università di Padova e prima autrice dello studio, sottolinea che avere un nanomateriale di questo tipo da utilizzare come agente di imaging multimodale è particolarmente importante a livello clinico, perché può essere ridotta la dose somministrata al paziente e anche i tempi di attesa nell’imaging stesso, fondamentale soprattutto nel trattamento del tumore in cui i tempi sono decisivi.

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