SCIENZA E RICERCA

I nostri oceani rischiano l'anossia, come già accaduto 444 milioni di anni fa

È stata la prima estinzione del suo genere e ha spazzato via l’85% delle forme di vita allora esistenti, tutte marine. La causa? Anossia, ovvero insufficienti livelli di ossigeno nei mari. È quanto sarebbe accaduto 444 milioni di anni fa, nel tardo Ordoviciano. E oggi i nostri oceani potrebbero rischiare la stessa fine: il cambiamento climatico sta sottraendo ossigeno agli oceani. È quanto scrive su Nature Communications un gruppo di scienziati di diverse università, da Stanford a Yale, passando per quella di Praga.

Nel tardo Ordoviciano il mondo era un posto molto diverso da come lo conosciamo oggi. La maggior parte della vita sguazzava negli oceani e le piante stavano appena iniziando a colonizzare la terraferma. Le terre emerse erano unite in un unico grande super-continente chiamato Gondwana ed erano ricoperte di ghiaccio a causa di un raffreddamento globale che aveva anche abbassato il livello di mari e oceani. Proprio questa ondata di freddo aveva iniziato a mietere le prime vittime. Ma circa 444 milioni di anni fa, un secondo radicale cambiamento nell’ambiente diede il via una perdita di biodiversità molto più imponente: la prima grande estinzione di massa, che si consumò nel giro dei tre milioni di anni successivi. Un battito di ciglia in tempi geologici.

Cosa provocò quel tracollo della vita sulla Terra? La mancanza di ossigeno. La risposta è stata racchiusa per milioni di anni negli strati rocciosi risalenti all’Hirnantiano e al Rhuddaniano. Ovvero l’ultima epoca dell’Ordoviciano e la prima del Siluriano, il periodo successivo. Per diverso tempo, infatti, gli scienziati non hanno avuto prove sufficienti per stabilire la gravità e la durata dell’evento di anossia e quindi capire se fosse davvero questo il responsabile della prima grande estinzione di massa.

Ora i ricercatori di Stanford e colleghi sono riusciti a dissolvere quelle ultime incertezze rimaste. Hanno valutato le concentrazioni di alcuni isotopi di metalli, come uranio e molibdeno, che vanno incontro a reazioni chimiche diverse a seconda che si trovino in condizioni anossiche o meno. E hanno esaminato a fondo gli strati rocciosi di scisto nero risalenti al Rhuddaniano, provenienti dal bacino di Murzuq in Libia.

In questo modo sono riusciti a elaborare un modello che tenesse conto di 31 variabili diverse relative ai dati raccolti, compreso la quantità di uranio e molibdeno dilavati dai fiumi che raggiungono gli oceani e si depositano sul fondale marino. E così sono arrivati all’unica conclusione possibile, la più affidabile secondo il modello: l’anossia negli oceani del tardo Ordoviciano è stata grave, ha coinvolto enormi volumi d’acqua nei fondali oceanici e si è protratta per oltre 3 milioni di anni.

«Grazie a questo modello siamo riusciti ad affermare con sicurezza che un evento anossico globale, profondo e duraturo ha innescato un secondo evento di perdita della biodiversità, provocando l’estinzione di massa nel tardo Ordoviciano», ha spiegato Erik Sperling, professore di scienze geologiche a Stanford. «Per la maggior parte della vita sulla Terra, il periodo tra l’Hirnantiano e il Rhuddaniano è stato davvero un brutto momento».

Il passato, però, ha sempre una lezione da insegnarci. A causa dei cambiamenti climatici, anche agli oceani di oggi “manca l’aria”. Secondo l’ultimo rapporto della COP25, dagli anni Sessanta a oggi, gli oceani hanno perso in media il 2% del loro contenuto di ossigeno. Ma in alcune aree, come la California, la “mancanza d’aria” arriva al 40%. Queste aree in cui l’ossigeno disciolto è fortemente ridotto o completamente assente vengono chiamate ormai “zone morte”. E purtroppo spuntano come funghi: negli ultimi settant’anni le “zone morte” si sono quadruplicate. 

La deossigenazione degli oceani – questo il termine tecnico – si fa più intensa e grave soprattutto nelle acque costiere, lungo le pendici delle piattaforme continentali e potrebbe spingere sull’orlo dell’estinzione decine e decine di specie. «È impossibile che condizioni di ossigeno insufficiente non abbiano un grave effetto sulla biodiversità» ha concluso Stockey. «Perciò la nostra speranza è che questo studio possa essere d’aiuto per monitorare l’impatto dei cambiamenti climatici e i livelli di ossigeno negli oceani».

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012