SCIENZA E RICERCA

La scienza dei vulcani, da Plinio all’intelligenza artificiale

La scienza della vulcanologia nasce sulle pendici del Vesuvio nel 79 d. C., con l’eruzione che sommerse Pompei e Ercolano. Dall’altra parte del golfo di Napoli, nell’area dei Campi Flegrei a Capo Miseno, Plinio il Giovane osservò quell’evento straordinario e lo descrisse in dettaglio in una delle sue Epistulae. “Da quel documento i vulcanologi di tutte le epoche hanno appreso moltissimo” commenta Francesca Bianco, direttrice dell’Osservatorio Vesuviano, sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. L’Osservatorio Vesuviano è il più antico osservatorio vulcanologico al mondo, fondato nel 1841 dal re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone. “E dal documento di Plinio il Giovane continuiamo ad apprendere moltissimo, perché man mano che aumenta la conoscenza dei fenomeni anche le informazioni riportate in quella cronaca così rilevante ci restituiscono conoscenze su aspetti che magari prima erano stati trascurati. Non a caso le grandi eruzioni oggi vengono chiamate pliniane”.

Intervista a Francesca Bianco, direttore dell'Osservatorio Vesuviano. Montaggio di Elisa Speronello

La vulcanologia è una scienza molto interdisciplinare, perché basa le sue predizioni su dati di natura molto diversa tra loro. Tiene insieme la fisica, la chimica, la geologia, la matematica, l’informatica e tenta di rispondere a una domanda fondamentale: quali sono i processi fisici e chimici che avvengono all’interno della Terra e che generano un’eruzione vulcanica?

Queste ultime possono essere di diversi tipi e hanno una varietà di impatti straordinaria: ci sono quelle esplosive, catastrofiche, ma anche quelle effusive, che modellano in modo diverso il territorio.

Circa il 10% dell’umanità vive in prossimità di vulcani attivi. “Oltre alla sfida scientifica di prevedere in modo sistematico tutti i tipi di eruzione vulcanica, c’è anche un interesse di tipo sociale, legato alla salvaguardia della vita umana e alla messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture” specifica Francesca Bianco.

Una delle caratteristiche fondamentali del monitoraggio dei vulcani attivi è il cosiddetto approccio multiparametrico, che la vulcanologia italiana soprattutto ha contribuito fortemente a sviluppare. “Significa strumentare i nostri vulcani con apparati diversi che misurano quantità fisiche e chimiche differenti, ma che insieme ci danno le informazioni che poi ci aiutano a definire lo stato del vulcano. Ormai il mondo scientifico si sta sempre di più muovendo verso l’integrazione dei saperi, che non era così scontata fino a qualche anno fa, e la nostra disciplina ne sta beneficiando”.

Per quanto riguarda la capacità della vulcanologia di fare predizioni, l’approccio prevalente resta quello probabilistico. “Non siamo in grado di fare previsioni a breve termine, un analogo delle previsioni del tempo per intenderci. Le nostre previsioni probabilistiche funzionano più sul lungo termine, ma man mano che i segnali anomali che ci dà il vulcano aumentano tanto più potremmo essere in grado di fare previsioni probabilistiche a più breve termine”.

L’eruzione del monte St. Helen’s del 1980, nello Stato di Washinton, Usa, ha segnato una svolta negli approcci quantitativi nello studio dei vulcani. “Chi stava effettuando i monitoraggi ha visto che i segnali erano così tanti, palesi e macroscopici che si è capito che il vulcano avrebbe eruttato. Non si è capito che sarebbe successo il giorno Y all’ora X, ma si è stati in grado di dire che il vulcano avrebbe sicuramente eruttato e che l’area interessata doveva essere evacuata, cosa che è stata fatta, a parte alcuni resistenti che non si sono voluti muovere e circa 50 persone hanno anche perso la vita”.

L’ultima eruzione dei Campi Flegrei risale al 1538. “Quella dei Campi Flegrei è una caldera importantissima dal punto di vista vulcanologico, ma lo è anche dal punto di vista sociale, oggi è nell’area urbana della città di Napoli e nelle cittadine dell’area flegrea: Pozzuoli, Quarto, Monte di Procida. Nel 1538 sicuramente non era così urbanizzata, tuttavia i fenomeni che si sono osservati in quell’area già anni prima dell’eruzione sono stati così macroscopici (sollevamenti del suolo di anche 7 metri, continui terremoti) che la gente che abitava nel luogo evacuò spontaneamente: fu la prima azione di protezione civile spontanea che noi conosciamo”.

Esistono però anche fenomeni che i vulcanologi non riescono ancora a predire, come ad esempio le esplosioni improvvise in vulcani a condotto aperto, che solitamente invece mostrano un’attività di fondo continua, come l’Etna. “Quello che stiamo facendo è aumentare la nostra sensibilità tecnologica, la capacità di rilevare segnali anche piccoli e poco energetici di parametri chimici e fisici, come sismicità, deformazioni del suolo, contenuto chimico dei gas che fuoriescono dai vulcani, temperatura dell’aria con telecamere a infrarossi, variazioni di gravità (se il magma risale cambia la quantità di massa e quindi cambia anche l’accelerazione di gravità). Stiamo abbassando la nostra soglia di detezione delle anomalie di questi parametri in modo tale da intercettare anche il più piccolo evento rilevabile”.

Di recente si è aperta anche una nuova strada per la vulcanologia: l’utilizzo dei big data. Lo sfruttamento dei sensori, a volte anche montati su droni, e le immagini fornite dalle costellazioni di satelliti che dallo spazio monitorano il suolo, hanno messo a disposizione degli scienziati una quantità enorme di dati che può venire analizzata dai sistemi di intelligenza artificiale. In queste serie storiche di dati gli algoritmi imparano a estrarre delle regolarità (pattern) che poi utilizzano per fare previsioni su un futuro in cui viene proiettata la conoscenza del passato. “Questa è una delle strade obbligate che dobbiamo percorrere. Naturalmente dobbiamo educare il più possibile questi approcci alla conoscenza di informazioni fisiche e chimiche e dei processi che regolano questi fenomeni. Noi utilizziamo già questo tipo di approccio fatto di reti neurali e machine learning. Credo che man mano che i nostri dati aumenteranno sempre più in volume (in pochi mesi riusciamo a centuplicare la quantità di dati che possiamo studiare) ridurremo sempre più l’incertezza sulle nostre attività predittive, per quanto ancora di natura probabilistica al momento”.

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