SCIENZA E RICERCA

Covid-19, studio preprint in Lombardia: molti infetti restano asintomatici

La settimana scorsa lo studio epidemiologico diretto da Andrea Crisanti a Vo’ Euganeo ha superato le ultime fasi della peer review ed è stato pubblicato sulla più prestigiosa rivista al mondo, Nature. L’articolo consegna definitivamente alla letteratura scientifica dati importanti per lo sviluppo di politiche sanitarie e di prevenzione: tra coloro che erano risultati positivi al virus nella popolazione di Vo’, il 42,5% era asintomatico; non è stata riscontrata significativa differenza tra la carica virale di sintomatici e asintomatici; tutti i 234 bambini sotto i 10 anni non si sono infettati.

E proprio mentre lo studio di Vo’ conclude con successo il cammino della revisione tra pari, un altro si appresta a percorrerlo. Anche quest’ultimo è a firma di ricercatori italiani, è comparso sul database arXiv a metà giugno e tratta il tema degli asintomatici. Di una coorte di 5484 pazienti lombardi, 2824 (circa la metà, il 51,5%) sono risultati positivi al virus e tra i positivi, riporta lo studio, solo il 31% ha sviluppato sintomi: circa il 69% degli individui positivi infatti è rimasto asintomatico. Considerando la fascia d’età inferiore ai 60 anni la percentuale di pazienti che non sviluppa sintomi sale quasi al 74%. Lo studio è stato realizzato da ricercatori affiliati alle autorità sanitarie (Ats) e centri di ricerca lombardi, alcuni dei quali avevano già realizzato un altro importante studio epidemiologico in Lombardia; prima firma è Piero Poletti della Fondazione Bruno Kessler di Trento.

Il dibattito sugli asintomatici è stato uno dei nodi più difficili da sciogliere nella pandemia da CoVid-19. Dalla comprensione del loro contributo alla diffusione dell’epidemia dipende non solo la stima della reale estensione del contagio (10 volte maggiore a quello rilevato dai dati secondo diverse stime), ma anche una maggiore capacità di seguire lo spostamento delle infezioni. Per loro stessa natura infatti gli asintomatici sono difficili da rintracciare e fintanto che non vengono individuati una parte dei movimenti dell’epidemia restano invisibili. “Il ruolo degli asintomatici e dei pauci-sintomatici nell’accendere l’epidemia nelle varie zone del mondo a partire dalla Cina ha avuto una sua importanza” ha commentato l’epidemiologo Alessandro Vespignani in un’intervista a Il Bo Live. “C’era un controllo per le persone che si ammalavano e che avevano una storia di viaggio, ma le persone che non manifestano sintomi o sono pauci-sintomatici sono difficilmente intercettabili. In Italia i primi casi sono arrivati a gennaio se non addirittura prima e per molto tempo i casi asintomatici hanno contribuito alla diffusione dell’epidemia”.

A lungo l’Organizzazione mondiale della sanità ha consigliato l’utilizzo della mascherina solo per determinate categorie, come gli operatori sanitari, considerati più a rischio di altre, ma non ne ha consigliato l’utilizzo al pubblico generico. Fino al 5 giugno, quando ha aggiornato le sue linee guida sull’utilizzo delle mascherine estendendo i consigli di utilizzo al pubblico generico in virtù di una letteratura scientifica aggiornata che considerava la potenziale contagiosità di pre-sintomatici, pauci-sintomatici e asintomatici.

Gli esperti hanno pochi dubbi sul ruolo importante dei pre-sintomatici (coloro che manifesteranno i sintomi ma che sono contagiosi anche prima di svilupparli) nel diffondere l’epidemia. Non esistono invece ancora risultati solidi che permettano di stimare il reale contributo degli asintomatici alla trasmissione. Ma l’assenza di una prova non è la prova di un’assenza e alcuni casi documentati di trasmissione da asintomatici stanno venendo registrati e pubblicati, tra questi ora anche lo studio di Vo’.

A inizio giugno due ricercatori dello Scripps Research Institue a La Jolla in California, hanno tentato di fare una sintesi sulla rivista Annals of Internal Medicine considerando 16 coorti studiate in diverse parti del mondo (tra cui uno studio sulla popolazione islandese, quello sulla popolazione di Vo’ e il caso della nave Diamond Princess). I ricercatori Daniel Oran e Eric Topol stimano che gli asintomatici costituiscono tra il 40% e il 45% delle infezioni da Sars-CoV-2 e che restano contagiosi per un periodo anche maggiore di 14 giorni.

Nel capitolo asintomatici finiscono anche i bambini, che secondo diversi studi sono meno suscettibili degli adulti alla malattia o allo sviluppo di sintomi. Comprendere quindi come la malattia si distribuisce per fasce d’età è cruciale per l’attuazione di adeguate politiche sanitarie e di prevenzione, oltre che per la riapertura delle scuole.

Lo studio lombardo pubblicato su arXiv infatti mira a stabilire come si distribuisce la probabilità di sviluppare sintomi e forme gravi della malattia per fasce d’età.

Tra febbraio e aprile le autorità sanitarie lombarde hanno effettuato il tracciamento di più di 64.000 contatti stretti di circa 21.400 casi confermati di CoVid-19, effettuando tamponi e test sierologici. Lo studio pubblicato su arXiv (e quindi non ancora sottoposto a revisione scientifica), considera un gruppo di 5484 contatti (età media di 50 anni, 56% femmine) positivi ad almeno un test di laboratorio (tampone o test sierologico), a prescindere dalla manifestazione di sintomi. Per essere valutato come sintomatico un paziente doveva avere disturbi respiratori o almeno 37,5°C di febbre.

Dei 5484 individui considerati, 2824 sono risultati positivi al virus, il 51,5% (età media delle infezioni 53 anni, 56,8% femmine). Ma tra i positivi al virus solo il 31% (876 individui) ha sviluppato sintomi, riportano gli autori, che sottolineano l’importanza della suddivisione in fasce d’età: la probabilità di ammalarsi era del 18% tra i pazienti al di sotto dei 20 anni e saliva quasi al 65% per gli ultraottantenni. Il dato più importante secondo gli autori che emerge dallo studio è che al di sotto dei 60 anni la percentuale di individui che non sviluppa sintomi è quasi del 74%.

La percentuale di casi gravi nel gruppo considerato è stata invece del 2,7% (75 individui), ma al di sotto dei 60 anni questa percentuale si abbassava a 0,54%, mentre saliva a 6,6% tra gli over 60, con un rischio maggiore per i maschi, a conferma di studi precedenti.

Una volta contratta l’infezione, gli autori sottolineano che all’età avanzata corrisponde una maggiore propensione a sviluppare sintomi mentre allo stesso tempo a giovani età corrispondono maggiori capacità di non sviluppare sintomi.

Un altro dato interessante che emerge dallo studio è che dei 2824 individui positivi del gruppo considerato, 1982 (il 67%, più di due terzi) sono stati individuati con il test sierologico e non con il tampone, a riprova della difficoltà che le autorità sanitarie lombarde hanno incontrato nel monitorare tempestivamente l’epidemia. Ad oggi la Lombardia ha dovuto contare più di 16.000 morti, quasi la metà dei totali decessi italiani, e 94.000 casi sui 240.000 totali dell’Italia.

In chiusura gli autori sottolineano che il gruppo di individui considerati è stato identificato tramite il tracciamento dei contatti e per questo non rappresenta fedelmente l’eterogeneità della popolazione italiana, né il tasso di infezione registrato (51,5%) è rappresentativo della situazione in Lombardia, poiché i contatti dei positivi sono esposti a un maggiore rischio di contagio. Ciononostante lo studio ha consentito di seguire dettagliatamente lo sviluppo dei sintomi e la suddivisione per fasce d’età ha restituito risultati utili che potranno essere usati per l’implementazione di misure preventive e politiche sanitarie, una volta che l’articolo avrà superato il vaglio della revisione scientifica.

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