CULTURA

Tante parole povere per capirsi meno?

Una delle caratteristiche precipue della nostra specie umana è di usare parole per pensare, parlare, scrivere, leggere. Ovviamente non è l’unica manifestazione di pensieri, eloqui, vergature, visioni; tuttavia è carattere abbastanza antico e universale di noi sapiens, da decine di migliaia di anni il più usato nella nostra dimensione sociale, qualunque sia il contesto di famiglia, gruppo, popolo, nazione. Ovviamente le parole sono connesse al linguaggio simbolico astratto e alle lingue storicamente determinate di tale linguaggio, si coniugano poi quindi con materie e regole e grammatiche e vocabolari e contesti della comunicazione di ciascuno nella sua comunità di residenza; tuttavia sono indispensabili a tutti, anche a chi subisce il dramma del ritardo cognitivo e dell’analfabetismo o affronta la libertà e la necessità della migrazione. Ovviamente, infine, abbiamo via via costruito numerose discipline scientifiche per studiare forma e sostanza delle parole; tuttavia chi pensa, parla, scrive o legge può saperne poco e nulla, senza necessario automatico danno per le proprie contestuali manifestazioni “parolate” e per la comunicazione con sé stesso e con gli altri.

Le parole sono molto della nostra vita quotidiana, non tutto. L’esistenza è fatta di esperienze senza parole: i muscoli involontari, le sensazioni tattili visive olfattive acustiche musicali, gli umori, pianti e risate, alcuni piaceri e dispiaceri, molte attività individuali pratiche o sportive. Soltanto una parte piccola della comunicazione non verbale indica qualcosa davvero “senza parole”: pure le vignette senza testo si trasformano spesso in parole nella mente; pure il linguaggio del corpo finisce spesso per tradursi in parole quando cerchiamo di capirlo meglio dentro di noi e attraverso un parallelo dialogo con gli altri; pure gli atti concreti finiscono per essere “formulati” attraverso parole dette o percepite da altri o scritte e poi lette. Il fatto è che noi usanti parole non sempre siamo consapevoli dell’estensione comparata e dei limiti intrinseci del nostro vocabolario, spesso pensiamo che gli altri pensino, vocalizzino, scrivano e leggano con parole cui abbiamo dato (solo) il nostro significato (legato ai nostri genere, età, lingua, scolarizzazione, reddito, potere), non proprio il significato pensato da loro usanti quelle stesse parole.

Le parole sono una nostra gabbia cognitiva

Le parole sono una nostra gabbia cognitiva, eppure piene di pensieri, dizioni, scritture altrui attraverso i quali tanti altri ci abitano e modificano le parole che usiamo. C’è di che impazzire.

Nello strumento online di parole che forse state un poco leggendo si è più volte scritto e riflettuto sulle parole, possiamo citare per esempio:

E si è già fatto riferimento al fondamentale contribuito dato sull’uso delle parole dal grande linguista italiano Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932 – Roma, 2017) in questo articolo "La guida all’uso delle parole di De Mauro ha 40 anni: anche le parole migrano". 

Il Fondo Tullio De Mauro e la Rete italiana cultura popolare

Quando De Mauro era in età avanzata decise di lasciare una parte della propria biblioteca e documentazione a un unico ente per un utilizzo collettivo. Il Fondo Tullio De Mauro è nato dalla donazione dello studioso e della moglie Silvana Ferreri alla Rete Italiana di cultura popolare e riassume un decennale lavoro di raccolta e di ricerca, comprendendo dizionari e grammatiche dialettali, saggi di linguistica, dialettologia e antropologia, testi letterari di narrativa, poesia dialettale e teatro, raccolte di filastrocche, canti e fiabe, che includono in particolare una significativa presenza bibliografica relativa alle lingue di minoranza.

Nel settembre 2017 al patrimonio bibliotecario è stato attribuito lo status di eccezionale interesse culturale da parte della Sovrintendenza ai Beni Archivistici del Piemonte e della Valle d’Aosta, su designazione ministeriale. Del resto, ampia e trasversale, in termini di appartenenza geografica e temporale, è la presenza degli autori fra i testi del Fondo: da Ruzante a Belli e Porta, da Eduardo De Filippo ad Albino Pierro e Ignazio Buttitta, con alcuni dei quali ricorre anche una serie di dediche e scambi epistolari. Riviste e periodici appartenenti a oltre cento testate locali vanno ad arricchire il patrimonio, insieme con opuscoli e letteratura grigia. Di rilievo e interesse storico è il materiale d’archivio che raccoglie le documentazioni di Gaetano Arfè, relative alla sua attività in Parlamento per la Carta dei diritti linguistici delle minoranze e di Piero Ardizzone inerenti alla legislazione italiana sulle minoranze.

La Rete italiana di cultura popolare che gestisce il Fondo è un’associazione di promozione sociale che ha sviluppato sul campo progetti capaci di ascoltare e di affiancare le comunità locali, a partire dallo studio dei riti e delle feste tradizionali, al modo in cui si costruiscono sentimenti di appartenenza o viceversa di estraneità, alle condizioni e risorse di integrazione e inclusione. La Rete è un laboratorio composto da enti, associazioni, scuole, gruppi e singoli cittadini che partecipano all'ideazione e (re)invenzione di nuove forme di comunità, partendo dai bisogni che emergono dalle narrazioni di chi abita i territori. Fondo e Rete hanno sede a Torino e svolgono iniziative anche in molte altre realtà sociali. A metà novembre 2021 è uscito un bel libro della Rete, opera di autori vari: Dizionario che cura le parole. Secondo volume. Nell’introduzione, la sociologa Chiara Saraceno spiega il viaggio collettivo per prendersi cura delle parole: l’uso appropriato, la consapevolezza delle sfaccettature, le comunicazioni dialoganti di senso fra più parlanti e ascoltanti, i testi presentati come carte di navigazione parziali ed aperte. Fra gli autori Marco Aime, Eva Cantarella, Sabino Cassese, Federica Patti, Bruno Segre.

Il dizionario nasce da incontri e colloqui pubblici. Da quattro anni, infatti, proprio presso il Fondo Tullio De Mauro di Torino si svolgono incontri su “Il potere delle parole”: giornalisti, studiosi e docenti di varie discipline presentano in una conferenza e poi inviano un breve testo scritto su una singola parola della lingua italiana, sostantivo o verbo, singolare o plurale. Nel 2019 furono raccolte definizioni e riflessioni su 14 lemmi: Biblioteca, Contatti, Coraggio, Cura, Educare, Famiglia, Multiculturalismo. Odio, Plurilinguismo, Politica, Populismi, Razza, Riconnessioni, Verità. Il citato secondo volume raccoglie oggi 20 lemmi (quasi tutti nuovi), ognuno illustrato anche con un bel disegno a colori: Amore, Comprensione, Comunicazione, Comunità 1, Comunità 2, Cura, Democrazia, Empatia, Esclusione, Fake News, Forza, Giornalismo, Ignoranza, Innovazione, Libertà, Merito, Migrare, Potere, Pubblico, Resistenza. 

Tullio De Mauro molto rifletté sull’analfabetismo funzionale, che in parte prescinde dal livello di scolarizzazione e dalle classi sociali: circa la metà degli italiani liberamente non legge libri, due terzi non capisce quello che legge (anche sugli organi d’informazione, pure sui social ora), alcuni milioni di italiani hanno una completa incapacità di lettura. Nel 1980 pubblicò una Guida all’uso delle parole che in appendice elencava quasi 5000 parole non fondamentali ma “di base”, tutte insieme minimo comun denominatore da costruire per cittadini che avessero fatto anche solo le medie inferiori, o usate con maggiore frequenza in un campione di testi italiani scritti (non stanno necessariamente nei nostri pensieri ma stanno nell’uso di tanti nostri concittadini) o legate a oggetti, fatti, esperienze ben noti a tutte le persone adulte nella vita quotidiana (stanno nei nostri pensieri anche se non le utilizziamo quasi mai). Il dizionario di oggi si muove sul solco del maestro. 

In parole “povere” significa con parole appropriate, di una ricchezza non esibita

La lotta all’analfabetismo materiale è solo uno degli aspetti che riguardano le parole nei principi, nei diritti, nei doveri e nelle prescrizioni della Costituzione repubblicana italiana, aveva ragione De Mauro: la prevenzione e riduzione dell’analfabetismo funzionale si collega all’effettività della dignità sociale e del principio di eguaglianza (articolo 3), alla tutela delle minoranze linguistiche (art. 6), alla promozione della cultura e della ricerca scientifica (9), alla libertà e segretezza delle forme di comunicazione (15), alla libertà di manifestazione del pensiero (21), al diritto all’istruzione e alla libertà di arte e scienza (33) e via “discorrendo”. Occorrerebbe, dunque, prestare più attenzione alle parole che usiamo, pensarle con cognizione di causa, esprimerle in forma orale o scritta con senso del limite e del dubbio, leggerle con gusto e rispetto, quell’onore e quella disciplina che la Costituzione chiede ai cittadini che si vedono assegnata e adempiono una funzione pubblica. Utilizzare le parole è indispensabile a ogni cittadino e cittadina, meglio abituarsi costantemente.

Non c’entrano solo le “parolacce”, gli asterischi eventuali, gli anglicismi d’accatto. Quel che è essenziale è accettare di diventare più padroni miti delle nostre parole e più attenti alla mite padronanza altrui delle parole. Con le parole non vale il criterio per cui ognuno può fare come gli pare a casa propria, tanto più in democrazia quando c’è una casa comune. Una padronanza linguistica condivisa è la scommessa che ogni parolante e ogni organo di comunicazione dovrebbero accettare e promuovere, individualmente e redazionalmente. Per acquisirla servirebbe certo leggere di più fuori dall’ambito scolastico, mantenere un contatto con le grandi tradizioni letterarie, anche straniere, anche poetiche. Tuttavia, non è per adesso che aumenteranno lettori e lettrici e dobbiamo condividere parole anche con chi non legge; servono allora la formazione permanente, televisione teatro spettacoli giochi, cultura digitale, divulgazione scientifica, la qualità inclusiva della vita. Autodiscipliniamoci senza divieti pervasivi, per esempio quando dobbiamo ragionare in termini di generi (“uomini” sarebbe lemma da usare giusto quando si parla proprio e solo di maschi, per il resto ognuno veda come comunicare con ognuno e ognuna) oppure se ci viene in testa un termine o un’espressione inglese e di altra lingua (talvolta basterebbe solo capire se esistono lemmi italiani abbastanza coerenti con quel che vogliamo dire) oppure quando facciamo riferimento a sigle per noi consuete (gli acronimi fanno parte raramente anche dello stesso mondo di chi ci ascolta o legge). 

Se le parole sono una gabbia, ipocrisia e fraintendimento vi sono inevitabilmente implicati: aggiungere se possibile un “forse” o sorridere con occhi e labbra non è mezzo per conquistare l’interlocutore, piuttosto solo per capirsi meno male. Talvolta non insultare, non urlare, non interrompere può essere ipocrita, ma probabilmente è spesso comunque meglio, a tu per tu e in televisione. Ormai si può studiare anche senza leggere volumi cartacei: per vivere dobbiamo confrontarci con parole proprie di linguaggi tecnici, quando le scriviamo spieghiamole fra parentesi, quando le leggiamo documentiamoci se non capiamo.

Ne tengano conto soprattutto coloro che scrivono troppo in burocratese. Più che la correttezza linguistica (difficile per chi non sa, non può o non vuole leggere) conta lo sforzo che tutti possiamo fare per semplificare la comprensione nel dialogo, lavorare a una permanente educazione democratica, linguistica e scientifica. De Mauro predicava un italiano “semplice” non nel senso (oggi in voga) di rozzo, trasandato, approssimativo. Al contrario, semplice perché parte di una relazione condivisa e valutata insieme. In parole “povere” significa con parole appropriate, di una ricchezza non esibita, viva come la nostra lingua!

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