SCIENZA E RICERCA

Il pregiudizio delle folle, ma anche degli scienziati

Non tutti gli articoli pubblicati su riviste di grande impatto, quale Science senza alcun dubbio è, meritano grande attenzione. Notoriamente (Irvine & Martin 1983), infatti, occorre distinguere fra qualità intrinseca (assenza di errori, originalità, eleganza modellistica, capacità predittiva ecc.), importanza (influenza potenziale se la comunicazione interna alla scienza fosse perfetta) e impatto (influenza realmente esercitata dalla pubblicazione come evidenziato dalle citazioni, anche per la semplice collocazione editoriale, che può essere felice anche a prescindere). Non è superfluo ribadirlo oggi in ogni sede, perché è il contrario di quanto è divenuto à la page. Ma questo articolo merita una considerazione proprio anche in virtù della sede, che più prestigiosa non potrebbe essere, perché rivelatore di un certo corso della ricerca sociale.

Di che si tratta? Nell’articolo si argomenta che razza ed etnia siano rilevanti nelle misurazioni di alfabetizzazione scientifica: science literacy della popolazione statunitense misurata attraverso quiz su basic scientific facts and processes. In esso si avanza il sospetto (sic!) che le usuali misurazioni nel campo dell’educazione mascherino una eterogeneità che supera ogni variabile sociologica testata nelle esperienze condotte da appartenenti a razze ed etnie diverse. In particolare, i risultati registrano che le prestazioni ai quiz, oltre i tradizionali fattori socio-demografici (età, genere, regione, reddito, educazione ecc.), siano progressivamente migliori passando da neri a ispanici e, ancor più nettamente, a bianchi. Si potrebbe facilmente supporre che sia lo stesso andamento della distribuzione del potere, nelle sue varie forme, ma di questo l’articolo non parla e lascia a noi fare questa illazione.

Il tema delle ‘razze’ è un tema vecchio, ma sempre verde, originato nella ideologia coloniale, sviluppato nel positivismo ottocentesco, ma negli ultimi venti anni messo al centro di un acceso dibattito (a partire da Herrnstein & Murray, 1996). Prese per buone sia la base dati (appare molto vasta) sia le elaborazioni statistiche, le possibili spiegazioni che possono avanzarsi alla lettura dell’articolo, per altro neanche ventilate, sembrano tre. Vediamole.

Prima spiegazione. Ammesso che sia ben fondato scientificamente il concetto di alfabetizzazione scientifica, le misurazioni quantitative condotte nei quiz ne sono solo un cattivo indicatore. In questo caso saremmo di fronte a una retromarcia per tornare con maggior avvedutezza critico-epistemologica al bivio fra nature/nurture con esiti non trascurabili su pratiche largamente invalse (p.es. i test Pisa/Invalsi). Si può, certo, sempre adottare una scappatoia ad hoc, mettendosi in attesa di future ricerche più fruttuose, ma parrebbe salvarsi in calcio d’angolo; forse potrebbe allora sollevarsi qualche dubbio, parafrasando una celebre frase del sociologo W.B.Cameron, alle volte attribuita ad Albert Einstein, che tutto quel che conta possa essere contato e che tutto quel che può essere contato conti davvero, che sia da criticare la tecnica dei quiz o l’operazionalizzazione dell’alfabetizzazione scientifica. E qui molto lavoro resterebbe da fare in via preventiva per ogni ulteriore considerazione di questa ricerca.

Seconda spiegazione. Le differenze riscontrate sono intrinseche alla appartenenza razziale ed estranee alla dimensione sociale (a meno di improbabili dimenticanze) e, quindi, più probabilmente di natura genetica (non è scritto nell’articolo, per la verità, ma che altro sennò?). In questo caso il determinismo genetico che ne scaturirebbe richiederebbe una base empirica assai più sostanziosa di quanto non si intraveda neppure, non fosse altro per non ricadere in quel ben noto, e odioso, pregiudizio coloniale da tempo denominato razzismo. Non essendo un esperto di genetica umana, mi limito a riportare che il termine razza risulta destituito di fondamento scientifico data la variabilità genetica intra-gruppo e la indistinguibilità statistica inter-gruppo e rinvio perciò alla copiosa letteratura in materia (dai lavori di Luigi Luca Cavalli Sforza in avanti). È anche sorto nel 2016 un movimento per l’abolizione del termine razza dalla nostra Costituzione, promosso dalla Associazione antropologica italiana, e dall’Istituto italiano di antropologia, appoggiato anche dall'Associazione genetica italiana e da numerosi genetisti proprio per la insussistenza di presupposti genetici per un tale concetto. Su di questo e sulla eventuale opportunità di una tale modifica in Costituzione si è recentemente e vivacemente dibattuto pro e contro in un convegno tenutosi all’università di Milano-Bicocca.

Quanto al termine etnia, esso è in parte meno problematico perché ammette variabili eccedenti rispetto alla razza, prendendo in considerazione lingua, tradizioni e cultura, ma è di più lasca definizione scientifica e rende difficile stabilire rigorose correlazioni oltre quanto meno generiche ‘affinità elettive’, visto che vi è una insopprimibile variabilità (difficilmente valutabile) all’interno di ogni comunità e le etnie citate non sembrano davvero essere ‘monoculturali’.

L’utilità che correntemente si riscontra di questi due termini, soprattutto ai controlli dell’identità (e della sicurezza) negli aeroporti degli Stati Uniti o a fini epidemiologici, non può essere portata a suffragarne la utilizzabilità scientifica, perché come il colore degli occhi (lentine colorate a parte), colore e foggia dei capelli (tinture, trapianti e innesti speciali a parte), altezza (alzatacchi a parte) e altri ‘connotati’ (plastiche a parte), tali termini hanno un certo potere identificatorio, pur non essendone note correlazioni con prestazioni intellettuali. Ma nel caso di razza ed etnia siamo di fronte a classificazioni che possono essere effettivamente utili alla identificazione in un contesto dove tali termini sono costruiti con intenti sociali giudicati politicamente rilevanti. E allora il contesto sociale non potrebbe essere ridotto a insieme di variabili degli individui, ma meriterebbe di essere considerato un fenomeno complesso da ricostruire nelle sue proprie dinamiche socio-storiche.

Terza spiegazione. Le differenze riscontrate dai quiz sulla base di classificazioni così incerte possono allora sollevare interrogativi proprio sul fondamento classificatorio (per la razza, il patrimonio genetico trasmesso in linea di generazione; per l’etnia, il patrimonio culturale sviluppato attraverso molte generazioni), per cui le differenze rinvierebbero a differenze relative a una ideologia biopolitica alla quale il ricercatore stesso non sarebbe estraneo. Si tratterebbe, allora, non solo di un contesto nel quale gli individui oggetto d’indagine vengono osservati, ma anche di quello in cui l’osservatore è allevato e si muove come in un campo sociale solo parzialmente autonomo. Il sociologo della conoscenza potrebbe preferire senz’altro questa via, per deformazione professionale o semplice collocazione nel campo scientifico. Ma, si sa, il suo è comunque mestiere ‘antipatico’, quasi da primo della classe, teso com’è a destrutturare le essenze degli oggetti (soprattutto quelli tematizzati da altre discipline, magari più blasonate) evidenziando i processi in cui gli oggetti entrano nelle esperienze dei soggetti, e dunque a rompere le classificazioni, e, in generale, ogni braga in cui si voglia costringere il mondo. E di braghe il riduzionismo che è tornato imperante negli ultimi decenni, dopo qualche eclissi parziale fra metà Ottocento (Darwin) e metà Novecento (Wiener), è ormai ricco come un alveare di api operaie: si va dal riduzionismo genetico e biomedico (cfr. Rose & Rose, 2012) o neuroscientifico (cfr. Legrenzi & Umiltà, 2009) al generale mito dell’evidence-based (cfr. Hammersley, 2013), dalla questione di cosa il QI misuri effettivamente (Gould, 1996) alla psicologizzazione forzata di massa (Furedi, 2003), anche solo a tenersi fuori dal dibattito tornato vivace di recente sul riduzionismo economicistico (lo si attendeva ormai da mezzo secolo giusto in questi giorni, da un famoso discorso di Bob Kennedy tre mesi prima di essere assassinato). In effetti, qualche elemento per parlare di ideologia sembrerebbe esserci. Questa ossessione quantofrenica e numerologica venne diagnosticata precocemente nelle scienze sociali da Pitirim Sorokin (1956), ma è tuttora diffusa una letteratura che tende a collegare geni, neuroni e anche il semplice mese di nascita alle prestazioni scolastiche o riproduttive, e anche a molto altro (p.es. a sviluppare malattie degenerative). Mentre può essere ovvio che il mese di nascita, e dunque l’età alla quale si inizia la scuola, influenzi le prestazioni scolastiche, meno ovvio è come questo possa mantenersi a lungo nel corso della vita. Il sociologo farebbe bene ad arrendersi di fronte ad affermazioni che potrebbero essere compatibili con l’astrologia (non ci risulta ancora uno studio sistematico sulle correlazioni che potrebbero rinvenirsi), in attesa del genetista, preferendo tornare ad occuparsi di temi sociologici classici tornati prepotentemente d’attualità, quali il rapporto conoscenza-potere, ad esempio.

In conclusione, apprendiamo da questa ricerca, condotta da quattro ricercatori di prestigiose università inglesi e statunitensi su un vasto database relativo agli adulti negli Stati Uniti, che gli interventi educativi necessitano di mirare (letteralmente, ‘di misurare e mirare’) alla qualità e non solo alla quantità di istruzione e qualificazione formale. Chi l’avrebbe mai detto? Gli autori, però, intendono sollecitare scienziati, insegnanti e datori di lavoro (sic!) ad essere più sensibili alle sottili manifestazioni del pregiudizio. Eh già, ma le basi del pregiudizio non sono solo nella psicologia delle folle, ma si annidano anche in quella dei ricercatori, filosofi o scienziati sociali, e, dai tempi di Karl Marx, a volte costituiscono proprio quell’ideologia contro la quale la scienza ha sempre da condurre la sua prima battaglia. Chissà se una simile ricerca troverebbe, però, una collocazione su Science?

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