SOCIETÀ

Il rugby non è solo ovale

Se vi chiedo di pensare a uno sport potente, penserete di sicuro al rugby, una disciplina estremamente fisica, giocata da chi non ha di certo paura di farsi male. Uno sport per veri duri, potremmo dire, dove l’area di gioco si trasforma in campo di battaglia e quindici uomini combattono (sfidandone altri quindici) per ottanta minuti tra fango, sangue e sudore. Nell’immaginario collettivo il rugby lo può giocare solo chi possiede certe caratteristiche: c’è spazio solo per i più forti, i più grossi, i più resistenti. Roba da Ironman, insomma. E invece il rugby si può giocare anche su ruote, restando seduti su una carrozzina e, vi stupirà forse sapere, che la determinazione, i valori, lo spirito e l’impegno non cambiano. Quello che cambia sono le regole. 

Non si gioca all’aperto, ma in un palazzetto. Non c’è la classica H per il drop tra i pali, ma esiste la meta. Le squadre sono formate da quattro giocatori, ma la vera grande differenza la fa la palla, che non è ovale ma rotonda. “Se fosse ovale, ci scapperebbe dappertutto. Quella rotonda, invece, riusciamo a gestirla anche grazie ai guanti che indossiamo e che ci permettono di trattenerla”, fa notare Davide Giozet, quarant’anni, bellunese, capitano della nazionale italiana di wheelchair rugby (protagonista di queste fotografie di Elena Barbini, autrice, insieme al giornalista Giorgio Sbrocco, di Vincenti, un libro che racconta la sua storia e quella dei suoi compagni).

Dodici anni fa un incidente lo costringe su una sedia a rotelle: “Prima dell’incidente giocavo a calcio, non seguivo il rugby. Del resto, si sa, sono due mondi molto distanti”. Oggi invece Davide è tra i pionieri di uno sport in crescita: il rugby su ruote, appunto. Lo incontro a Padova, nella palestra di una scuola media dove si allena con altri compagni di squadra - uomini ma anche donne, perché le squadre sono miste – di tutte le età, si va dai 20 ai 50 anni. Sono gli atleti della nazionale, che oggi partecipano ai primi tornei internazionali, scontrandosi con le squadre più forti, quelle che vincono i Mondiali: Danimarca, Svezia (che nel rugby di Castrogiovanni non sono considerate neppure comparse) e Canada, Paese che ha inventato questo sport oltre trent’anni fa. “In Italia è uno sport giovanissimo, esiste da quattro anni. A lanciarlo nel nostro Paese è stato Alvise De Vidi (capitano della squadra azzurra prima di Davide, ndr). Il gruppo padovano è quello più numeroso e attivo, nel resto d’Italia non c’è ancora molto. Al momento, qualcuno si allena anche a Vicenza e Trieste - spiega Davide -. Abbiamo bisogno di farci conoscere, vogliamo promuovere il nostro sport e arrivare in più città possibili, perché non abbiamo ancora raggiunto un numero sufficiente per poter organizzare un vero campionato. Se aumenteranno i giocatori, poi, miglioreranno anche i risultati internazionali e verranno investite più risorse da parte della Fispes, la Federazione italiana sport paralimpici e sperimentali”. E continua: “Il wheelchair rugby è l’unico sport di squadra adatto a un tetraplegico, perché anche il basket in carrozzina da molti non può essere praticato”. Lo si può giocare, infatti, anche se non si ha una grande mobilità delle braccia: il pallone viene recuperato e poi tenuto in grembo fino a raggiungere, e superare con due ruote, la linea di meta. Ad ogni atleta viene dato un punteggio di classificazione, “dal più basso, ovvero 0.5, al più alto, 3.5. È un punteggio che si basa sulle capacità residue del singolo: all’atleta con maggiori capacità viene assegnato un punteggio più alto. La somma dei quattro giocatori in campo non può superare gli otto punti. Questo consente di avere una squadra equilibrata e di far giocare davvero tutti, anche quelle persone che non avrebbero possibilità di inserirsi in altri sport”. 

Chiedo a Davide di dirmi cosa, nella sua disciplina, possiamo ritrovare del rugby classico. “Il contatto”, risponde. E in effetti, assistendo a un allenamento, ci si accorge subito di quel che vuol dire: non si risparmiano i colpi, ma toccare un avversario costituisce un fallo, lo scontro è spesso violento ma possibile solo tra carrozzine: “L’obiettivo è bloccare l’avanzata degli avversari per aprire dei varchi ai tuoi compagni e arrivare in meta – spiega - Ci sono carrozzine d’attacco, riservate a chi ha un punteggio di classificazione alto, e da difesa”. Alla fine del nostro incontro, poco prima dell’inizio dell’allenamento, è Giuseppe, trentenne di Verona, compagno di squadra di Davide, a regalare la lettura definitiva di questo sport, concentrando in poche parole il senso del wheelchair rugby. Ci ascolta e infine aggiunge: “Prima hai chiesto cosa abbiamo in comune con i rugbisti… Ecco, io penso che basti dire questo: anche noi non molliamo mai”.

Francesca Boccaletto

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