SCIENZA E RICERCA

Screening dei tumori: l’efficacia non è in dubbio

Soffiate le 50 candeline sulla torta di compleanno, nella cassetta delle lettere verrà recapitato, con una certa insistenza, l’invito della Ulss locale a fare l’esame per la ricerca del sangue occulto nelle feci. Alle sue pazienti tra i 25 e i 64 anni il ginecologo ricorderà che il test citologico per il tumore alla cervice è un servizio gratuito, a cui sarebbe saggio sottoporsi. Il servizio sanitario nazionale offre alle signore tra i 50 e i 69 anni la mammografia come prestazione assistenziale di base, da fare possibilmente una volta ogni due anni. Sollecitazioni del genere spesso ci mettono in agitazione. Due clinici e una giornalista, tutti e tre americani, hanno sollevato dubbi sull’efficacia dello screening tumorale. A ben vedere tac, radiografie e quanto viene quotidianamente adoperato per rilevare la presenza di eventuali cellule pre-tumorali nel nostro corpo servirebbe a poco. Dalle colonne del British Journal of Medicine, che nella sua sezione analysis ha pubblicato l’articolo, emergerebbe un’amara verità. Se si considerano le morti totali (quindi non associate direttamente al cancro per cui si fa lo screening) una mammografia piuttosto che un qualsiasi altro test diagnostico non risulta poi così determinante nell’allungare la vita media dei destinatari delle campagne di prevenzione. Tutto ciò pone degli interrogativi allarmanti. Forse tutte queste campagne di prevenzione sono solo uno stress per l’utente? O addirittura lo screening potrebbe rappresentare quasi un pericolo? Se si ascolta con attenzione l’opinione di esperti della materia, se si legge qualche pubblicazione sul tema e se si guardano le statistiche sostenere che le campagne in questione siano inutili sarebbe un vero azzardo scientifico e farebbe  danno alla salute di milioni di donne e uomini. 

Prima di tutto gli autori dell’articolo apparso sul BMJ  mettono, come si suol dire, le mani avanti. Da un lato mostrano i dati di alcuni studi (per citarne uno, un follow-up  condotto dal Minnesota Colon Cancer Control Study sullo screening per il sangue occulto nelle feci) che non riconosce una differenza significativa del tasso di mortalità tra il gruppo di individui sottoposto a screening e il gruppo “controllo” che invece non è stato sottoposto ad alcun tipo di diagnosi preventiva. Dall’altro sottolinea che per evidenziare una qualche reale differenza  con una certa sicurezza il numero di individui sottoposti al trial clinico è troppo basso. Per poter avere una soddisfacente rilevanza la numerosità dei soggetti dovrebbe essere almeno quintuplicata. Come dicono gli addetti al mestiere, test condotti in questa maniera sono statisticamente poco potenti. Inoltre vengono presi in considerazione esami che la pratica clinica ritiene imprecisi e propensi a dare falsi positivi, come il test del PSA per il tumore alla prostata.

A proposito di addetti al mestiere, la dottoressa Anna Rosa Del Mistro, responsabile di “Immunologia e diagnostica molecolare oncologica” allo IOV di Padova, mostra una certa dose di scetticismo sulla pubblicazione del Britsh Journal of Medicine. Del Mistro fa notare che “lo studio in certi suoi passaggi non presenta molti numeri a sostegno delle sue tesi”. La pubblicazione non supporta con grafici o statistiche affermazioni audaci come: “La biopsia prostatica è associata a seri rischi tra cui morte; ad esempio uomini con una diagnosi di cancro alla prostata hanno  una maggior probabilità di commettere suicidio”. Soprattutto l’oncologa dell’istituto padovano fa notare come il test PSA proprio per la sua incertezza non è tra le prestazioni  l.e.a. del sistema sanitario (livelli essenziali assistenziali). Al contrario, per Del Mistro “lo screening di tumori come il cancro alla cervice, erogato  gratuitamente dalle Ulss del territorio in quanto l.e.a., ha dato un forte contributo a combattere questa patologia”.

 Non è solo un’opinione di clinici e ricercatori veneti. Un ampio studio apparso su  Preventive Medicine condotto da ricercatori di tutto lo stivale, da Udine a Siracusa, ha messo in risalto, questa volta sì con grafici, tabelle e quattro pagine fitte di dati corroboranti, che in otto anni di programmi organizzati per lo screening alla cervice (OCSP) il tasso di incidenza del cancro invasivo della cervice si è ridotto del 25% rispetto al quinquennio precedente. Ovviamente, un buon servizio di screening, per essere efficace, deve essere erogato seguendo appropriati protocolli, ma lo studio italiano conclude che, seguendo questa strada maestra, le OCSP avranno un ruolo sempre di maggior spessore nella prevenzione di questo tipo di tumore. 

Anche lo IARC (International Agency for Research on Cancer, recentemente alla luci della ribalta per una monografia sulla cancerogenicità di carni rosse e lavorate) punta verso questa direzione, pur ammettendo alcuni limiti dello screening, insiti in qualsiasi test diagnostico. L’anno scorso l’agenzia Onu dalle pagine del New England Journal of Medicine si è spesa in particolar modo per la prevenzione del cancro alla mammella, anche questa una prestazione l.e.a.  come il test citologico per il cancro alla cervice e per la ricerca di sangue occulto nelle feci. C’è piena consapevolezza delle incertezze associati alla mammografia, che può portare a diagnosticare un falso positivo o ad una sovradiagnosi ovvero identificare una lesione tumorale che non sarebbe mai stata diagnosticata se la persona non si fosse sottoposta all’esame. L’altro lato della medaglia di questo screening  è però un’acquisita riduzione della mortalità fino al 40%. Senza contare che ad oggi non esistono strumenti sufficientemente sicuri per dire quale lesione tumorale evolva in un tumore conclamato e quale no.

Insomma, non dobbiamo pensare che 1,42 milioni di euro investiti dalla Regione Veneto nel 2009 per “l’implementazione dell'applicazione software per la gestione dei programmi di screening oncologico (screening mammografico, citologico e del colon retto) da parte delle Aziende Ulss...” siano quattrini dei contribuenti gettati al vento. Lo screening serve, eccome. Avere sul territorio nazionale istituti di ricerca clinica a carattere scientifico  che propongano campagne di prevenzione gratuite e vivere in regioni che le finanzino non può che essere motivo di orgoglio e soprattutto fonte di conforto per gli utenti del sistema sanitario. Di sicuro raccogliere in vasetti sterili di plastica campioni delle proprie feci, appoggiare il seno tra le piastre di un macchina a raggi X o farsi raschiare con una spatola le mucose interne non sono attività piacevoli, che anzi eviteremmo volentieri, che ci sia da pagare il ticket o che non si debba sborsare un euro. In questi casi però è proprio il caso di fare uno sforzo e di sacrificare qualche ora della giornata di tanto in tanto. Il gioco vale sicuramente la candela.

Tommaso Vezzaro

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