SOCIETÀ

Sergio Romano: serve una mini-Europa coesa e libera dagli USA

“La guerra fredda? È stato uno dei periodi con la maggiore stabilità internazionale. Un paradiso terrestre”.  Sergio Romano non rinuncia alle battute, ma le sue analisi in politica estera sono spietate, improntate a un pragmatismo che lascia poco spazio al “politicamente corretto” o a visioni più o meno edulcorate dei rapporti tra logiche di potere, equilibri geopolitici e diritti umani. Ospite del ciclo di conferenze Segnavie all’Orto botanico padovano, il diplomatico e scrittore affronta il tema propostogli (“Democrazie in prognosi riservata?”) offrendo un quadro sconfortante, ma degno di riflessione, su quanto la forma di governo che Churchill definì “la peggiore, a parte tutte le altre” attraversi una gravissima crisi. Per l’ex ambasciatore a Mosca la crisi delle ideologie, con l’esaurirsi di visioni etiche e politiche in grado di offrire ai cittadini prospettive globali, ha comportato il fallimento della democrazia nella forma consolidata in Occidente. Mentre il dopoguerra, secondo Romano, legava paradossalmente la propria stabilità alla deterrenza nucleare, “mostro” che le grandi potenze maneggiavano retoricamente, ma della cui letalità erano ben consapevoli.

Esaurita la contrapposizione tra i blocchi, la lotta tra comunismo e socialismo (risoltasi in apparenza con il tramonto dell’Urss) ha finito con il decretare anche il declino della socialdemocrazia, reso palese dai suoi tracolli elettorali in molti Paesi europei. Il liberalismo, dal canto suo, pare ormai incapace di attrarre consensi. Ma anche l’ideologia che sembrava destinata a dominare il nuovo secolo, la globalizzazione, è in grave sofferenza: all’incremento di ricchezza prodotto in molti Stati emergenti si è affiancata l’eliminazione delle regole che disciplinavano il mercato, con la proliferazione di strumenti finanziari “creativi”, il crollo delle banche, la crisi dell’occupazione. La fine dell’ottimismo sulla globalizzazione, per Romano, coincide con l’eclissi delle democrazie rappresentative, l’esplosione dei populismi, dei separatismi etnici, dell’instabilità politica.

In questo quadro di “nuovo disordine mondiale” va letta, secondo Romano, anche la crisi dei partiti tradizionali, che lasciano il posto a movimenti antisistema, soggetti che hanno facile gioco nel vincere con promesse irrealizzabili: se la politica è screditata, e mancano figure autorevoli che riescano a incanalare il dibattito entro binari credibili, si realizza la “caricatura della democrazia”. Così anche in Europa possono risorgere governi autoritari: il riferimento è agli stati orientali del “Gruppo di Visegrad”, con casi come quello della premier polacca che l’anno scorso evocò il nazismo per respingere le richieste europee di accogliere quote di immigrati. Certo, riconosce il diplomatico, sull’immigrazione l’Europa ha commesso un errore sottovalutando l’enormità del problema, e questo ha spalancato le porte allo spirito antieuropeo, così come non è possibile snobbare la preoccupazione dei paesi nordici per la gestione dei conti pubblici (le nostre ripetute “spending reviews” altro non sarebbero che foglie di fico, concluse con le inevitabili dimissioni degli incaricati).

E tuttavia, per Romano non c’è per l’Italia collocazione migliore che in Europa: un’Unione, certo, soltanto con chi condivide i nostri valori e la nostra visione, e quindi perfettamente compatibile con il progetto di una “Ue a due velocità”, destinata a separare i destini dei Paesi fondatori da quelli dei nordici e di Visegrad, con i quali mantenere un accordo più “leggero”, sul modello della confederazione svizzera. Ma la nostra mini-Europa più piccola e più coesa come dovrebbe collocarsi sul piano esterno? Qui Romano non fa mistero di un’altra posizione eterodossa: sogna un’Unione politicamente neutrale (Svizzera docet, di nuovo), slegata dagli Stati Uniti sia politicamente che sul piano militare, ma dotata di una capacità di difesa autonoma.

L’America, nella visione del diplomatico e scrittore, ormai ci è troppo lontana: anche prescindendo dalla leadership attuale (Trump è “pericoloso”, anche se per Romano è oggetto di una vera persecuzione da parte dei media) gli Stati Uniti sono un Paese avvelenato da odi e paure, in primis contro la Russia. Controcorrente anche nel valutare le leadership di Putin e Xi Jinping, Romano rifiuta per loro il marchio di autocrati: Putin sarebbe oggetto di una vera ondata russofoba, mentre l’Occidente non comprende il suo ruolo nell’aver traghettato la Russia verso un’“oligarchia di Stato” meno peggiore e meglio disciplinata di quella dei corsari che, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, concentravano in poche mani le risorse vitali della nazione. La Russia, come la Cina, per l’ex ambasciatore è un Paese troppo vasto e multietnico per essere governato senza accentramento e autoritarismo: inutile, quindi, lamentarsi anche per la nomina a vita del presidente cinese.

Quanto al fallimento delle “primavere arabe” e il dilagare del terrorismo islamico, anche qui Romano non rinuncia a stare fuori dal coro: se il mondo arabo rifiuta la democrazia e si rifugia nel risveglio dell’integralismo religioso, una buona parte di responsabilità è degli Usa e del concetto di “democrazia esportabile”, schermo dietro il quale, secondo Romano, l’Occidente ha perseguito i suoi interessi in Medio Oriente con interventi militari disastrosi, scaturiti nella destabilizzazione dell’area. In questo senso, il terrorismo sarebbe una reazione inevitabile, un “risorgimento” attuato “con l’unica arma che gli Usa non posseggono: il suicidio”.

Martino Periti

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