SOCIETÀ

Presidenziali Usa: i pericoli di un voto “sospeso”

A una settimana dalle elezioni presidenziali Usa la campagna elettorale ha raggiunto l’acme, senza esclusione di colpi da entrambe le parti. Se i media conservatori mirano a coinvolgere Joe Biden in uno scandalo attraverso il figlio Hunter, sulla sponda opposta per il  New York Times la rielezione di Trump sarebbe la “più grande minaccia alla democrazia americana dalla seconda guerra mondiale”. Certo il prestigioso quotidiano liberal non è mai stato tenero con l’attuale presidente, ma l’attacco pubblicato dall’Editorial Board risulta comunque inedito per la veemenza del tono, con Trump descritto come “il peggior presidente della storia moderna”, “un razzista demagogo”, “un isolazionista” e “un bugiardo”, sotto cui la nazione è divenuta “più polarizzata, paranoide e cattiva”.

Di per sé nulla di nuovo, ma ora con l’avvicinarsi del 3 novembre la questione diventa più seria, complici le condizioni inedite in cui si stanno già svolgendo le operazioni di voto, che potrebbero complicarne l’esito. Così soprattutto nei media progressisti si fa strada l’inquietudine: non tanto per il risultato – dato da quasi tutti gli istituti di sondaggi a favore di Joe Biden con un margine molto ampio – ma per il fatto che Trump possa rifiutarsi di riconoscere la sconfitta, con conseguenze difficili da prevedere.

Una macchina elettorale che non funziona

“Si dice sempre che ogni voto alle presidenziali è storico ma questo lo è veramente, forse più dell’elezione di Obama nel 2008 – esordisce Mattia Diletti, docente di scienza politica all’università “La Sapienza” di Roma –. Il livello di conflittualità e di incomunicabilità raggiunto dal sistema politico è a livelli che nessuno ricorda negli ultimi decenni, e bisogna dire che spesso ad accendere la miccia è Donald Trump: anche lui un presidente diverso dagli altri, divisivo e con una concezione personalistica delle istituzioni”.

Il 3 novembre potremmo non avere un vincitore, in particolare se ci saranno difficoltà con i voti postali Ferdinando Fasce

C’è il pericolo che la notte del 3 novembre non ci sia un vincitore? “Sì, anche perché sono stati in tanti a mettere sabbia negli ingranaggi elettorali – continua Diletti –. Alla base c’è il problema che l’America si porta dietro da tanto tempo, ovvero un sistema elettorale che funziona male, con regole diverse in ogni Stato, rischio di file infinite e sistemi che potrebbero andare in tilt: in molti Stati potrebbe volerci molto tempo per la conta. Soprattutto in una tornata in cui si annunciano un’alta partecipazione e il massiccio utilizzo del voto per posta”. Secondo lo studioso nei prossimi giorni “vedremo anche l’effetto di tutto quello che è stato fatto in questi anni per rendere più complessa la partecipazione delle persone: in Pennsylvania ad esempio il governatore (democratico, ndr) ha voluto che la scheda fosse messa in due buste e questo potrebbe produrre contenziosi. Tutto sembra insomma andare verso un potenziale caos, a meno di una evidente valanga democratica. In generale tanto più forte ed evidente sarà l’affermazione di uno dei due candidati, soprattutto in alcuni Stati chiave, tanto più questo caos potrà essere ridotto o evitato”.

Anche secondo lo storico Ferdinando Fasce, già ordinario di storia contemporanea presso l'università di Genova, “il 3 novembre potremmo non avere un vincitore, in particolare se ci saranno difficoltà con i voti postali. Su questo ci sono già state polemiche anche sulle dichiarazioni del presidente del servizio postale, che in primo momento aveva parlato di difficoltà nella gestione del sovraccarico di lavoro ma poi, anche a causa della reazione molto forte da parte dei democratici, ha garantito il buon funzionamento della procedura. Trump ha più volte parlato di pericolo di brogli per il voto per posta, ma evidentemente non ha funzionato: al momento hanno già votato in questo modo oltre cinquanta milioni di americani, oltre un terzo dei possibili voti finali”. Ma il voto per posta dà effettivamente meno garanzie? “Non direi, è una pratica accettata da anni – continua Fasce, che è anche autore di una monografia sui presidenti americani –. Il sistema di voto americano ha poi mille falle, ricordiamo tutti le macchine che non funzionavano, i voti che non arrivavano, i riconteggi…”.

Non sono mancate le polemiche sugli ostacoli burocratici sorti soprattutto negli ultimi anni attorno al voto: “Da un lato le procedure per registrarsi al voto possono portare via una giornata di lavoro se non di più, cosa che può danneggiare soprattutto le persone che vivono in condizioni precarie e può tradursi in un elemento di deterrenza per tenerli lontani dalle urne – prosegue Ferdinando Fasce –. Ci sono poi i cambiamenti delle sedi dei seggi, che possono essere allontanati dai quartieri popolari in modo che siano più faticosi da raggiungere, e la lentezza e la difficoltà delle operazioni di voto, che spesso causano code e lunghe attese. Infine non va dimenticato che frequentemente sono esclusi dal voto anche quelli che hanno avuto una condanna penale, anche molto limitata, e non hanno pagato la corrispondente sanzione, e che l’incarcerazione di massa colpisce soprattutto le minoranze, in particolare quella afroamericana”.

“E se Trump non se ne va?”

Cosa accadrebbe se il presidente uscente rifiutasse un pacifico passaggio dei poteri al vincitore delle urne? “Che vinca o perda, Trump non riconoscerà mai la sconfitta”, scrive il giornalista d’inchiesta Barton Gellman su The Atlantic, corroborato da varie analisi e testimonianze e da una dichiarazione dello stesso presidente durante una conferenza stampa. Il Concession speech (e prima ancora della televisione il Concession telegram) è una tradizione importante per le istituzioni americane, ma che già nelle elezioni presidenziali degli ultimi anni era entrato in crisi, al divergere dei risultati del voto popolare dal numero dei grandi elettori assegnati a ciascun partito. Al Gore ad esempio riconobbe la sconfitta solo dopo settimane di battaglie legali: stavolta però la situazione potrebbe essere ancora più complessa, dato che tra l’altro coinvolgerebbe – particolare inedito – un presidente già insediato e in carica.

Più caos c’è, più Trump è avvantaggiato; più l’esito delle urne sembrerà inappellabile e meno ci sarà spazio per rivendicazioni Mattia Diletti

“Tutto è possibile, anche che il 3 un contendente sembri vincitore ma poi la situazione venga ribaltata con il conteggio del voto anticipato – riprende Mattia Diletti –. Sarà comunque decisivo il clima che si creerà il giorno delle elezioni e in quelli successivi: Più caos c’è, più Trump è avvantaggiato; più l’esito delle urne sembrerà inappellabile e meno ci sarà spazio per rivendicazioni”. E se il risultato continuasse a essere incerto per giorni? “Se il caos si prolunga alla fine saranno i giudici a decidere, e soprattutto negli Stati sul filo di lana la partita andrà alle corti. Potrebbero esserci giorni di propaganda e di frastuono, con possibilità di conflitti e scontri tra fazioni e di qualche gesto preoccupante. Francamente sono invece dubbioso sui pericoli di una torsione autoritaria, anche perché se c’è una cosa di cui abbiamo certezza è che Trump negli ultimi mesi è riuscito ad alienarsi anche le simpatie degli apparati di sicurezza. Al momento è in conflitto con la Cia e l’Fbi ed è stato sottoposto a critiche fortissime persino da parte ex generali che hanno fatto parte della sua amministrazione, come l’ex segretario alla Difesa Mattis”.

Prova a sdrammatizzare anche Ferdinando Fasce: “In fondo in passato si potevano aspettare giorni, addirittura settimane prima di conoscere l’esito delle votazioni. Se il ritardo è fisiologico le cose dovrebbero andare facilmente a posto. Se poi però ci sono anche problemi di contestazione del voto, come abbiamo già visto altre volte, lo scenario si complicherà e dipenderà anche da chi sarà chiamato a dirimere le questioni, dalle commissioni elettorali fino alla Corte Suprema. E su quest’ultimo punto va ricordato che è stata appena nominata la giudice Amy Coney Barrett, che ha portato la Corte sul 6-3 a favore dei giudici nominati dai repubblicani”.

SPECIALE Elezioni Usa 2020

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