SOCIETÀ

Il populismo e quel divorzio tra la sinistra e il popolo

Populista: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle” (J.-M. Naulot, 1996). Su questa battuta del banchiere francese Naulot si articola la tesi dell'ultimo libro del sociologo Luca Ricolfi: “Sinistra e popolo. Il conflitto nell'era dei populismi” (Longanesi 2017). I recenti avvenimenti politici, dalla Brexit alla vittoria di Trump, hanno portato alla luce le contraddizioni e la cecità di quella che viene definita, in modo abbastanza generico, l'élite. Già subito dopo la vittoria di Trump, il giornalista di Repubblica Federico Rampini aveva pubblicato il libro “Tradimento. Globalizzazione e immigrazione, le menzogne dell'élite” (Mondadori 2016), dove, con spirito anche autocritico, denunciava le classi dirigenti e il mondo intellettuale per non essersi accorti di coloro che sono stati travolti dalla globalizzazione, i forgotten men. Ancora più severo è il libro, qui sopra citato, di Ricolfi: il sociologo prende in esame il divorzio tra sinistra e popolo, utilizzando a volte un tono quasi sarcastico e lasciando trapelare l'amarezza di chi, nonostante provenga da una cultura di sinistra, si trova costretto a compiere un “sinistricidio”.

Ricolfi, dopo una prima parte dedicata alla diade destra-sinistra attraverso la rilettura di Norberto Bobbio e Friedrich von Hayek, si focalizza su un excursus storico che parte dai gloriosi trent'anni e giunge fino ai giorni nostri, indispensabile per comprendere il lungo addio tra la sinistra e il suo popolo.

L'età dell'oro (1946-1975) fu caratterizzata da politiche keynesiane e la socialdemocrazia appariva come il modello vincente, capace di unire welfare e crescita; Isaiah Berlin la definì il “tentativo più ammirevole e riuscito di promuovere sia la giustizia che la prosperità in una società senza introdurre gli aspetti più autoritari del socialismo”. Presto però, agli inizi degli anni Settanta, una tenaglia di cause interne ed esterne fece vacillare l'approccio economico keynesiano: da una parte la crisi fiscale dello Stato, dall'altra la fine del gold standard con Nixon nel 1971 e la quadruplicazione del prezzo del petrolio decisa dai paesi dell'Opec durante la guerra dello Yom Kippur (1973). Questo cocktail esplosivo partorì la cosiddetta stagflazione (stagnazione+inflazione), una crisi che spalancò le porte ad un nuovo paradigma economico antitetico a quello keynesiano dei socialdemocratici: con gli anni Ottanta prevalse la scuola monetarista di Milton Friedman, nella sua versione politica interpretata da Margaret Thatcher e da Ronald Reagan. Sono gli anni del turboliberismo, della filosofia anti-statalista e dello “scioglimento di lacci e lacciuoli”, secondo il motto del “quando sale, la marea alza tutti i battelli, grandi e piccoli”. Si assiste alla revanche conservatrice del free market come pensiero unico dominante; il mercato diventa il fine, un valore a sé, come denunciò in un famoso pamphlet, “L'Horreur économique”, Viviane Forrester. Questo “totalitarismo del mercato” rilanciò la crescita ed ebbe molta popolarità per tutta la durata degli anni Ottanta, per poi spegnersi a inizio anni 90', lacerato da una ipertrofica “finanziarizzazione dell'economia, alimentata dai bassi tassi di interesse e dal boom di strumenti finanziari basati sull'indebitamento” (Ricolfi). Negli anni Novanta', con la caduta dell'Urss e la riunificazione della Germania, comincia una nuova fase dell'economia: quella del WTO (World Trade Organization), in vigore dal 1995 e, più in generale, della globalizzazione giunta alla sua acme.

È proprio con la globalizzazione che, secondo Ricolfi, il pensiero economico della sinistra non riesce a fare i conti. La sinistra negli anni Novanta si è convertita definitivamente alla filosofia del mercato, celebrando le virtù dell'apertura degli scambi, della circolazione di merci e persone. La Terza via teorizzata da Giddens ha sancito il patto d'acciaio tra sinistra e capitalismo: è successo però che la sinistra, nel patto con il capitale, non abbia incluso il proprio popolo.

A questo punto, dopo aver delineato il contesto storico, Ricolfi entra nel vivo del dibattito attuale. Il sociologo delinea tre grandi periodi della storia del populismo: la fase della riapparizione (1972-84), con la nascita del Fn, la Liga Veneta in Italia e il Partito del progresso nell'area scandinava. La fase della proliferazione (1984-2008), con la Lega di Bossi nel 1987, il clamoroso ballottaggio in Francia nel 2002 tra Chirac e Le Pen. Infine la fase di sfondamento (2008-2016), dove i partiti populisti sono arrivati ad avere consensi tra il 10 e persino il 20%.

Sono tre i cambiamenti, tutti conseguenze più o meno mediate della globalizzazione, che hanno disorientato la politica tradizionale e alimentato il fuoco dei populismi: la deindustrializzazione, l'in-condizionata apertura delle frontiere e la stagnazione dovuta alla crisi del 2008. In questa cornice si inserisce la parte politica più smarrita, colei che doveva rappresentare i ceti bassi e il proletariato, l'”umanità che soffre” per dirla con Marx: la sinistra.

Quello che il popolo cerca e che i partiti populisti sembrano essere in grado di fornire a differenza della sinistra progressista è, secondo Ricolfi, la protezione. Protezione di fronte ad un sentimento di insicurezza, causato dal mix esplosivo di crisi e terrorismo-disordine sociale. La sinistra, invece, non si accorge di questi problemi, ritiene siano infondati, irrazionali. “La ragione per cui la sinistra non vede le richieste di protezione del popolo è semplicemente che quello non è più il suo popolo. La sinistra che è emersa dalla rivoluzione della Terza via non ascolta le richieste e i sentimenti del popolo per l'ottimo motivo che essa […] è diventata la rappresentante di un nuovo blocco sociale, al cui centro non vi sono più né operai, né ceti deboli, né i cosiddetti ultimi”. Il sociologo si domanda allora quale è il cuore della nuova costituency della sinistra: “i ceti medi riflessivi, come ebbe a battezzarli lo storico Paul Ginsborg […] gli strati forti del sistema sociale, quanti cioè posseggono le risorse materiali per poter esperire la globalizzazione come un'opportunità, e le risorse culturali per poter apprezzare i valori della sinistra”. Per mascherare la propria crisi di identità la sinistra ha fatto del feticcio dell'accoglienza la sua bandiera, avvolgendosi in un velo di Maya che le ha permesso di credere, occupandosi di chi sta in basso - ovvero i migranti -, di essere ancora sinistra. Nel frattempo, lontana dalle periferie, brindando sulla torre d'Avorio, ha consumato il divorzio con il proprio popolo rendendosi cieca di fronte ai problemi del mondo materiale e dei bisogni di base (sicurezza, casa, alimentazione), crogiolandosi in un mondo di simboli, di bisogni post-borghesi e post-materialisti. “Con milioni di persone che avevano perso il loro lavoro, con quartieri divenuti invivibili per la presenza massiccia di immigrati, con servizi sociali sempre più contesi fra nativi e stranieri, con città e aeroporti presi di mira dal terrorismo islamico, l'attardarsi della cultura progressista sui problemi post-moderni dei raffinati ceti urbani, dai matrimoni gay al linguaggio sessista, dalle quote rosa all'ambiente, è parsa a molti, prima ancora che offensiva, del tutto fuori dalla realtà”. L'insofferenza per il politicamente corretto, giunto ad un “follemente corretto” (Caterina Soffici), ha contribuito a far deflagrare la rivolta dei popoli. Per usare il linguaggio di Marx, la sinistra si è impegnata ad allargare i diritti nel cielo della politica dimenticandosi il sottosuolo economico-materiale.

Il giudizio severo di Ricolfi sulla sinistra non lascia spazio all'ottimismo. D'altro canto, la sinistra rischia di rimanere impaludata nelle sue contraddizioni: come farà, dopo aver lodato le virtù della globalizzazione fin dagli anni Novanta, a riprendersi un popolo che ha subito sulla sua pelle la globalizzazione?  Come farà a rispondere alla domanda di protezione quando il suo atteggiamento è sempre stato denigratorio nei confronti delle paure del “popolo irrazionale”? E soprattutto, con quale modello economico riuscirà a conciliare il Dio mercato con nuove politiche di welfare? In molti, con sguardo ormai malinconico, aspettano delle risposte.

Luca Picotti

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