UNIVERSITÀ E SCUOLA

Sognatori di ritorno. In Messico

È quanto mai evidente il marchio Trump nell’inarrestabile inasprirsi della politica statunitense anti-immigrazione, fra muri, Muslim-ban e assunzione in massa di agenti per la sicurezza frontaliera. Una manovra che minaccia l’espulsione di buona parte dei circa 11 milioni di stranieri privi di documenti che si stima vivano negli Usa, dei quali circa 5,8 milioni sarebbero messicani. Un enorme contingente di emigrati di ritorno che solleva nello stato centroamericano l’emergenza del reinserimento di questo incredibile numero di persone sia nel mondo del lavoro che in quello dell’istruzione. Per rispondervi il più prontamente possibile, il governo messicano ha recentemente annunciato una serie di misure che toccano da vicino il mondo universitario.

Il timore della deportazione è sentito infatti anche dagli studenti che beneficiano del programma Daca (Deferred Acion for Childhood Arrivals) che, avviato dal governo Obama nel 2012, garantirebbe ancora uno status legale temporaneo a migranti con particolari requisiti entrati negli Stati Uniti da minori prima del 2007, ma che recenti arresti sembrano minare. E poi ci sono i Dreamers, circa 400.000 giovani che in virtù del Dream Act, legge federale più volte proposta dal governo precedente ma mai approvata, “sognavano” di accedere alla residenza legale ed eventualmente alla cittadinanza americana qualora avessero frequentato almeno due anni di college o si fossero arruolati nelle forze armate americane. In molti casi i dreamers non hanno oggi in Messico alcun legame, né talora parlano spagnolo. Anch’essi emigrati illegalmente negli Stati Uniti da minorenni assieme ai genitori, non avrebbero quindi colpa del reato commesso dai loro famigliari.

“Il 17 marzo è stata approvata in Messico una nuova legislazione che facilita il processo d’iscrizione a scuole e università ai giovani rimpatriati” ci informa Marion Lloyyd, ricercatrice alla Universidad Nacional Autónoma de México. Le nuove disposizioni, in particolare, permetterebbero alle università private di validare i certificati di studio rilasciati da altri istituti messicani e stranieri. E, soprattutto, alla certificazione che attesta gli studi fatti all’estero non dovrà più essere allegata un’apostille, timbro notarile diplomatico per ottenere il quale sono necessarie lunghe attese e spese non esigue. “Il governo messicano dovrebbe procedere inoltre a creare un nuovo sistema nazionale di qualificazione che unifichi i requisiti su standard internazionali. Oggi il processo di validazione degli studi esteri, infatti, funge da deterrente per molti giovani che stentano dunque a tentare un’esperienza di studio oltre confine”.

Di poco precedente è l’annuncio del segretariato federale della pubblica istruzione che apre l’iscrizione alle scuole primarie e medie anche agli studenti sprovvisti di certificato di nascita. Inoltre in 50 consolati messicani negli Stati Uniti vi sono già uffici che offrono assistenza legale gratuita a chi voglia regolarizzare la propria posizione o si ritrovi ad affrontare il rischio di deportazione.

Al di là delle disposizioni governative, anche molte università mettono in campo iniziative a favore dei migranti, sia in patria che negli Stati Uniti. La Universidad Iberoamericana di Città del Messico (Uia), uno degli istituti universitari privati più prestigiosi e costosi dello Stato, ha annunciato a febbraio che a partire dal prossimo semestre metterà a disposizione 1.500 borse di studio per studenti senza documenti provenienti dagli Usa; inoltre, verranno riservati ai dreamers alcuni posti nei corsi base, così da avviare dei percorsi di inserimento nel mondo universitario. Anche la Unam, l’ateneo pubblico presso cui svolge le proprie ricerche la Lloyd, si è impegnata a riservare dei posti per i messicani di ritorno, mentre altre università offrono corsi gratuiti di lingua spagnola.

“Ci sono però alcune posizioni critiche, che pongono il dubbio se sia moralmente accettabile riservare posti ai migranti in un sistema universitario pubblico già al collasso” sottolinea Marion Lloyd. “Al momento meno di un terzo dei 10.000 di messicani fra i 18 e i 24 anni frequenta l’università. Perfino la Unam, che è l’ateneo più grande del Paese, rifiuta 9 domande di iscrizione su 10”.

All’emergenza formativa cronicizzata se ne sovrappone una acuta, dunque, che rischia di essere molto grave qualora Trump mantenga effettivamente la promessa di deportare anche gli studenti “illegali”. E qualora gli Stati Uniti smettano di credere nella ricchezza che lo studio e la ricerca possono recare, qualsiasi sia la nazionalità di chi investe nella propria formazione.

Chiara Mezzalira

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