SCIENZA E RICERCA

10.000 ore non bastano (e neanche 20.000)

Nel 1905 un giovane outsider di 26 anni, il tedesco Albert Einstein, con tre diversi articoli mandò in soffitta i concetti di spazio e di tempo assoluti in fisica e dimostrò che materia ed energia sono manifestazioni di una medesima realtà. Pochi mesi dopo, nel 1906, un altro giovane outsider, lo spagnolo Pablo Picasso, iniziò a dipingere un quadro, Les Demoiselles d'Avignon, con cui mandò in soffitta i concetti di spazio e di tempo assoluti nelle arti figurative e inaugurò la stagione del cubismo.

Lo storico Arthur I. Miller in un libro, Einstein, Picasso: space, time and the beauty that causes havoc, ha dimostrato che i due cambi di paradigma, in fisica e in pittura, non sono del tutto indipendenti. Eppure, nemmeno lui dubita che si trattò di “due colpi di genio”. Ovvero di atti creativi realizzati da due geni. Già, ma cosa aveva reso quei due giovani outsider, Einstein e Picasso, dei geni? E cos’è la genialità: un carattere innato o una faticosa conquista?

Le due domande ritornano da secoli. Senza soluzione. E tuttavia molti uomini di scienza, da Francis Galton allo stesso Einstein per non dire di Jacques Hadamard, hanno tentato di darvi risposta. Il tema ha suscitato molta attenzione anche da parte degli psicologi, ma neppure loro ne sono venuti a capo. Aveva suscitato pertanto un certo rumore l’articolo The role of deliberate practice in the acquisition of expert performance pubblicato nel 1993 sulla Psychological Review da tre studiosi della mente: K. Anders Ericsson, Ralf Th. Krampe e Clemens Tesch-Romer. La tesi era piuttosto forte: geni per lo più non si nasce. Geni si diventa. Con impegno e determinazione. Bastano 10 anni di lavoro – intenso e determinato, appunto – per raggiungere il top in qualsiasi settore, dalle scienze alle arti, dallo sport allo spettacolo.

Il rumore si è trasformato in scalpore nell’anno 2008, quando uno scrittore e giornalista canadese di grande fama mediatica, Malcolm Gladwell, pubblicò un libro, Outliers (pubblicato in italiano nel 2009 con il titolo Fuoriclasse. Storia naturale del successo), in cui riprendeva la tesi di Ericsson e dei suoi colleghi, racchiudendola in uno slogan di grande presa: basta che vi impegniate per 10.000 ore (meno di 5 anni di lavoro, 8 ore al giorno) e toccherete il cielo della genialità. Anche Outliers, a ben vedere, è stato un “colpo di genio”. Perché da allora la parola d’ordine “bastano 10.000 ore” è diventato un mantra. E Malcolm Gladwell ha consolidato la sua posizione di uomo tra i 100 più influenti del mondo, secondo il settimanale Time.

Molti, tuttavia, si sono chiesti se quella di K. Anders Ericsson, Ralf Th. Krampe e Clemens Tesch-Romer, riformulata da Gladwell fosse una tesi scientificamente provata. Davvero ciascuno di noi può diventare un Einstein o un Picasso, se solo ci prova?

La risposta (chissà se definitiva?) è venuta lo scorso 24 febbraio, quando David Z. Hambrick, psicologo americano in forze alla Michigan State University e un gruppo di suoi collaboratori hanno pubblicato sulla rivista Intelligence un nuovo articolo, dal titolo piuttosto eloquente: Accounting for expert performance: the devil is in the details: nella valutazione delle performance degli esperti (e dei geni), il diavolo si nasconde tra i dettagli. In cui dicono, pari pari: "L’evidenza empirica indica che la pratica deliberata, che certamente è importante, non è così importante come sostenuto da Ericsson e colleghi". Il gruppo ha studiato le performance di 1.083 giocatori di scacchi e di 628 musicisti. Trovando che il duro lavoro e l’intenso impegno possono spiegare circa un terzo delle capacità  individuali. Ma la maggior parte della variabilità tra giocatori e musici è dovuta ad altri fattori. Inoltre, spiegano Hambrick e colleghi già nell’abstract del loro articolo, la verifica empirica di Ericsson, Krampe e Tesch-Romer è piena di contraddizioni ed errori. E aggiungono: non abbiamo sciolto il mistero della genialità. Anzi, sottolineiamo che c’è bisogno di una teoria falsificabile, propriamente scientifica, che la spieghi.

Dunque, punto e daccapo. Non basta farsi legare a una sedia, come Vittorio Alfieri, e studiare indefessamente per 10 o 5 anni per diventare un genio. Ci vuole dell’altro. Già, ma cosa? Davvero, per usare un facile gioco di parole, il genio si nasconde nei geni? Nessuno ha ancora una risposta. Ma, lasciato quello della mera volontà, non bisogna correre dietro ad altri facili riduzionismi.

Certo, anche i geni contano. Ma non bastano. Probabilmente occorre una miscela di ingredienti per comporre un genio. Alcuni li indica proprio Arthur I. Miller, lo storico inglese che ha studiato le performance di Einstein e Picasso, in un altro libro pubblicato nel 1996: Insights of genius: imagery and creativity in science and art. Se guardiamo a figure come Einstein o Picasso, ma anche Galileo, Leonardo o Newton, ci rendiamo conto che la loro creatività scientifica e/o artistica è un misto di intuizione, senso estetico, realismo, rappresentazione mentale, uso di metafore e immaginazione visiva. E caso: trovarsi al momento giusto nel posto giusto. E storia: la propria storia. Einstein e Picasso avevano certo “buoni geni” e avevano anche “lavorato sodo”. E avevano anche intuizione, senso estetico, realismo. Facevano esperimenti mentali. Avevano immaginazione visiva. Ma è anche vero che, per caso, entrambi sono stati facilitati dalla lettura di un libro, La science et l'hypothèse, in cui nel 1902 il matematico francese Henri Poincaré aveva affrontato il tema della relatività dello spazio e del tempo e della natura dell’energia. Insomma è la storia personale che, un po’ per caso un po’ per necessità, porta una persona dotata di buoni geni e di grande volontà a diventare un genio

Pietro Greco

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