CULTURA

Contro il colonialismo digitale

Da qualche giorno è in libreria Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, di Roberto Casati (Ed. Laterza). Presentiamo qui un estratto dalla conclusione.

In questo breve saggio ho cercato di mostrare come si possa scegliere in modo utile tra percorsi che catturano l’attenzione e percorsi che la proteggono, in particolare sottolineando le potenzialità dei sistemi educativi tradizionali, inerti e low-tech, in un paesaggio sociale in cui la tecnologia, al servizio di colossali catene commerciali di distribuzione, colonizza la vita e conquista facilmente il tesoro dell’attenzione dei discenti. La tecnologia entra a gamba tesa nelle pratiche e nelle tradizioni; non c’è nulla di intrinsecamente buono o cattivo in questo; dipende dalla qualità delle tradizioni, e dipende dalla terra promessa. Ho parlato del libro, e di come abbia un certo numero di vantaggi cognitivi e sociali, a volte sorprendenti proprio perché vengono invece descritti come dei limiti (il fatto di essere linea­re, di non essere ipertestuale, di presentare informazioni nel formato una-pagina-alla-volta, di essere un oggetto di scambio sociale, di essere fisicamente pesante, di occupare spazio, e di non informare l’editore sulle nostre abitudini di lettura). Che il libro di carta rischi di diventare commercialmente obsoleto non significa che sia obsoleto cognitivamente. Anche il disincanto epistemologico che creano le nuove tecnologie – tutte le tecnologie, quando sono nuove – non è né buono né cattivo in sé. La fotografia è stata liberata; il libro purtroppo no, e per questo, ho sostenuto, va protetto istituzionalmente. Non tanto immaginando economie protezionistiche, quanto studiando dei modi per dare valore alle specificità della lettura (la settimana o il mese della lettura, la creazione di spazi privati temporanei nelle biblioteche, il prestito massiccio, le etichette annotabili). Se la lettura ci è stata rubata, la nostra autodifesa deve essere attiva.

Parlare del libro a scuola ci ha permesso di parlare della scuola e del suo rapporto con la novità tecnologica. Ho parlato a lungo dell’iPad, di un modello specifico di innovazione, perché ha catturato l’immaginazione dei guru della comunicazione e di ministri affrettati, facendo dimenticare che non è semplicemente un computer molto ergonomico, ma l’ultimo anello, il più importante, di un’enorme e potentissima catena commerciale. Penso che dovremmo pensarci su due e anche tre volte prima di introdurre massicciamente nella scuola una vetrina. Se ci interessano i tablet, rivolgiamoci a produttori che si limitano a fornire l’hardware e imponiamo delle condizioni sulla presenza di software aperti, sulla possibilità di disattivare le connessioni alla rete. Ho suggerito che si possano e si debbano cercare nei contesti educativi delle occasioni per sottrarre alle nuove tecnologie l’aura di normatività automatica: riciclandole, usandole in modo diverso da quello immaginato dai loro progettisti e produttori (i sistemi a bassa tecnologia per il tutoraggio a distanza con gli sms, il riciclaggio dei blog per assistere l’insegnamento, l’invito a scrivere su Wikipedia e non solo a consultarla o copia-incollarla), liberandole quindi dalla sciatteria progettuale, ed evitando al tempo stesso di soccombere a interessi economici poco trasparenti. Non abbiamo nessuna ragione di subire la novità tecnologica, e non abbiamo nessuna ragione di rifiutarla a priori; possiamo sempre negoziare (chiedere ai nostri interlocutori di consultare mail e chat solo alla fine della riunione, per favore). La tecnologia va studiata e va affrontata con pragmatismo e creatività, come fanno gli hacker, nel senso buono della parola. Ho cercato di mostrare che non c’è una soluzione, un comportamento o un prodotto “killer”. Questo perché non c’è un solo problema (“il problema delle nuove tecnologie a scuola”) e bisogna mantenere un atteggiamento aperto e pragmatico. Ho speso alcune pagine per mostrare gli intrecci ormai noti, ma mai sufficientemente spiegati, tra l’uso della tecnologia e le logiche di potere grandi e piccole che stanno dietro anche agli usi più semplici, come una richiesta inviata a Google, e indicato alcune strategie di autodifesa (le ricerche che perturbano i sistemi di raccomandazione, l’uso del caso). Spiegare questo intreccio dovrebbe essere uno dei compiti della scuola se deve formare dei cittadini tecnologicamente consapevoli.

Ho sostenuto che la scuola e gli insegnanti – che ne sono la linfa vitale – non hanno ragione di farsi intimidire dalla normatività automatica che le tecnologie impongono, e tanto meno dal discorso populista che richiede di giustificare l’istruzione e in particolare la colonizzazione tecnologica dell’istruzione ventilando i benefici che se ne potrebbero trarre in termini economici o occupazionali. La missione della scuola, fino a prova contraria, non è di rincorrere la novità; è di istrui­re. Istruire significa anche dare la possibilità di sapere che esiste e che vale la pena di conoscere da vicino un teorema di logica, La cognizione del dolore, o l’Offerta musicale. Non perché questo serva necessariamente a qualcosa. Ma perché è parte di quello che gli esseri umani hanno saputo fare di meglio, ed è un peccato non saperlo. La scuola, in una società che lascia poco spazio a ciò che non è immediatamente utile, ha qui un valore esemplare: mostra che è possibile passare del tempo a fare cose belle e senza ricadute economiche.

Ho cercato di sfatare il mito del “maestro elettronico”, un gadget o un’app che idealmente si sostituirebbero all’insegnante, e di opporvi l’idea di una tecnologia dal volto umano che allarghi gli orizzonti dell’insegnante. Ho difeso l’idea che la scuola debba in certa misura resistere alle tecnologie distraenti proprio perché ha già un vantaggio immenso su di esse – il fatto di essere uno spazio protetto, in cui lo zapping è vietato per definizione; il che le permetterebbe di non rincorrere il cambiamento tecnologico e, allo stesso tempo, di incubare, paradossalmente grazie alle sue immense inerzie, il vero cambiamento, o meglio lo sviluppo morale e intellettuale delle persone.

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