UNIVERSITÀ E SCUOLA

I fuori corso, un falso problema

“All'Italia manca il rispetto delle regole e dei tempi. Credo che la scuola sul rispetto delle regole debba dare un segnale forte” perché “gli studenti fuori corso hanno un costo, anche in termini sociali” dichiara il ministro Francesco Profumo al Corriere della sera. Profumo ha citato il fatto che il 33,6% degli iscritti nelle università italiane nell’anno accademico 2010-2011 era fuori corso.

Ma è proprio vero che l’elevato numero dei fuori corso è un problema? In realtà, gli studenti fuoricorso pagano le tasse (già oggi in molti casi più alte di quelle normali) e non incidono più di tanto sulle strutture delle università, dal momento che di regola frequentano poco (il principale motivo dell’essere fuori corso non è l’infingardaggine ma il lavoro).

Come riconoscono Carmen Aina e gli altri autori di uno studio su la voce.info.  “È anche vero che il costo aggiuntivo di studenti in più ai corsi o agli esami è zero”. Gli economisti però aggiungono: “la massa dei fuoricorso è così rilevante che incide inevitabilmente nell’organizzazione di corsi, esami, orari di ricevimento e di conseguenza anche nelle attività di ricerca. La quota dei fuoricorso, pertanto, riduce la produttività  sia degli studenti in corso sia dei docenti”.

Questo sembra un argomento discutibile: i corsi sono organizzati, come aule e come orari, per soddisfare i bisogni degli studenti che frequentano; in genere le università italiane non hanno corsi serali, o di sabato, per gli studenti lavoratori, tranne alcuni Master pensati specificamente per questo tipo di audience e che non sono toccati dal fenomeno dei fuori corso.

Al ministero si sostiene che il “fuoricorsismo” (pessimo neologismo coniato dagli economisti della lavoce.info) è una forma di spreco delle risorse pubbliche perché le tasse degli studenti coprono solo il 10% del costo complessivo di uno studente universitario. Il resto è sostenuto dalla fiscalità generale, che lo sostiene per accrescere la dotazione di capitale umano nella società  e migliorare le prospettive di accesso al mercato del lavoro (l’Italia continua ad avere una percentuale di laureati sul totale della popolazione molto inferiore alla media dei paesi dell’Ocse). La formazione di un laureato richiede un investimento pubblico ma se i fuoricorso acquisiscono una istruzione di minore qualità, l’investimento fatto su di loro si trasforma in uno spreco.

Anche questo argomento non sembra del tutto convincente: la capacità di laurearsi nei tempi previsti è il risultato di una serie di fattori tra i quali “il rispetto delle regole e dei tempi” citato dal ministro gioca un ruolo minore. E’ vero che una diversa organizzazione degli esami, per esempio impedendo di ripetere lo stesso esame più di tre volte, potrebbe incentivare gli studenti a non presentarsi impreparati sperando nella fortuna o nell’indulgenza del professore. Ma le cause strutturali dell’elevato numero di fuori corso stanno altrove: 1) Si laureano nei tempi previsti gli studenti le cui famiglie hanno investito fortemente nella loro istruzione fin da piccoli, fornendo loro un ambiente culturalmente stimolante in casa e iscrivendoli alle scuole migliori. 2) Poiché l’Italia ha un sistema di borse di studio scandalosamente carente in confronto a quello di tutti i paesi industrializzati, lavorare è per molti studenti una necessità, il che allunga inevitabilmente il periodo di studi. 3) Le università italiane sono molto indietro nell’organizzare un orientamento efficace, nel prevenire gli abbandoni al primo anno di corso, nel sostenere gli studenti in difficoltà, nell’offrire biblioteche sempre aperte e ricche di materiali: tutti servizi che all’estero vengono forniti.

Le spiegazioni del ministro Profumo, che ne fa una questione di volontà individuale dello studente di adeguarsi ai tempi dell’università, sembrano quanto meno semplicistiche.

 

Fabrizio Tonello

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