CULTURA

Il cattivo tedesco e il bravo italiano. Alle radici di una memoria addomesticata

Le storie che raccontiamo rivelano molto di noi, e il modo in cui descriviamo un periodo o un fatto storico non dice solo quel che siamo stati quanto quel che siamo quando lo raccontiamo. Una storia che continuiamo a raccontarci, ad esempio, è che siamo un popolo di brava gente; che società siamo oggi lo possiamo forse capire anche da come affrontiamo (o non affrontiamo) la questione della colpa nella storia italiana del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale. Della costruzione della “narrazione italiana” di quegli anni si occupa in particolare un libro di recente pubblicazione, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, che indaga la creazione della memoria pubblica nazionale a partire dall’armistizio del settembre 1943 ma soprattutto la rimozione della colpa nell’autocoscienza del Belpaese. Rimozione che ha assolto troppo spesso il bravo italiano approfittando delle colpe storiche della Germania nazista, approdando a un’immagine troppo patinata di un popolo italiano bonaccione e incapace di crudeltà.

Inevitabile quindi chiedere all’autore, Filippo Focardi, se a distanza di decenni qualche zona d’ombra sia rimasta, nella ricostruzione di quella storia. “Non per la storiografia”, spiega, “che ha ormai svelato tutte le zone d’ombra a partire dalla metà degli anni Novanta, grazie al lavoro di giovani studiosi che si sono rifatti a loro volta alle opere di storici come Collotti, Sala e Del Boca”. Tre i principali filoni indagati, in Italia e negli studi internazionali: l’antisemitismo e la responsabilità italiana nella persecuzione contro gli ebrei (con l’Italia, ad esempio, che precede la Germania nel decretare l’espulsione degli ebrei dalla scuola); i crimini coloniali, i campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale e le atrocità compiute dai fascisti ma anche dall’esercito regolare nei territori occupati; i criminali di guerra mai perseguiti, per i quali – per vari motivi – “non c’è mai stata una Norimberga italiana”.

La presa di coscienza può passare anche da iniziative inaspettate come la recente querela spagnola verso i militari italiani responsabili dei bombardamenti su Barcellona nel 1938. Azioni giudiziarie di questo tipo, commenta Focardi, “hanno sempre un valore storico, perché permettono di raccogliere molti documenti che risulteranno poi utili agli studiosi. E poi non va sottovalutata la loro importanza per le vittime, anche se a distanza di molto tempo è quasi impossibile pensare di punire i colpevoli; ma anche una condanna in contumacia – come è successo per i processi delle stragi di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema, seguiti al ritrovamento dei fascicoli del cosiddetto ‘armadio della vergogna’ – ha comunque un effetto lenitivo per chi ha sofferto, rende giustizia alle comunità vittime di quei crimini riconoscendo ufficialmente le sofferenze subite”. Da ultimo, hanno valore per il diritto internazionale, un effetto preventivo, di ammonimento, e rappresentano la possibilità di una sanzione per chi intendesse macchiarsi di crimini analoghi.

La zona d’ombra che tuttora rimane è proprio nella pubblica presa d’atto delle colpe e nell’assunzione delle responsabilità. Non basta la consapevolezza della storiografia, ormai acquisita, né è sufficiente la coscienza della memoria nell’opinione pubblica qualificata (il libro di Angelo Del Boca, Italiani brava gente? ha venduto 100.000 copie, superando quindi il circolo ristretto degli studiosi). Serve, a detta di Focardi, “una resa dei conti pubblica, a più livelli”. A scuola, anzitutto, per parlare alle giovani generazioni, che nei manuali trovano ancora troppo poco sulle responsabilità italiane. Nel dibattito pubblico, in televisione, sui giornali, nella divulgazione per il grande pubblico: un bel documentario di Giovanni Donfrancesco  del 2008, La sporca guerra di Mussolini, sui crimini di guerra italiani durante l’occupazione della Grecia, “è passato in televisione solo una volta su un canale Mediaset, mentre avrebbe dovuto essere visto da tutti sulle reti del servizio pubblico”.

E poi ci sono, o dovrebbero esserci, le “politiche della memoria”. Focardi dà atto al presidente Napolitano di aver fatto qualche passo in questa direzione, con il riconoscimento reciproco dei torti fatti e subiti in Istria e Dalmazia. O con le scuse presentate dall’Italia alla Grecia per voce dell’ambasciatore Gianpaolo Scarante a Domenikon nel 2009, importanti, ma praticamente ignorate dalla stampa italiana. Se forse è tardi per avere una autentica “Norimberga italiana”, può essere il tempo della pubblica responsabilità.

Cristina Gottardi

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