SCIENZA E RICERCA

La lingua salvata (dialetti compresi)

C'è un nome straniero in testa al frontespizio della maggiore opera della lessicologia italiana, il Lessico Etimologico Italiano (per gli addetti ai lavori semplicemente il LEI). Il nome è quello di Max Pfister, linguista svizzero di passaggio in questi  giorni a Padova, e il LEI è l'opera della sua vita, monumentale dizionario nato nel 1968 e arrivato finora alla lettera D, in cui confluisce il lessico di tutte le forme d'italiano, anche antico, e di tutti i dialetti italiani.

Può sembrare paradossale che un progetto così italiano sia nato e cresciuto in Germania, ma questo fa parte della tradizione degli studi della linguistica e della filologia, per loro natura transnazionali. È interessante piuttosto scoprire cosa sta dietro a questo progetto la cui conclusione è prevista per il 2032. Quali sforzi e quali difficoltà? L'abbiamo chiesto direttamente a Pfister, un gentilissimo signore di ottant'anni con ancora tutto l'entusiasmo di un ragazzo.

È spesso più facile per le scienze dure giustificare gli investimenti nella ricerca. Ma come si riesce a convincere la società che è opportuno investire anche nelle ricerche umanistiche?

Effettivamente non è facile, soprattutto nel caso del LEI che viene realizzato in Germania, dove mi fanno notare che si tratta di uno studio sulla lingua e cultura italiana. Avere i sussidi non è sempre agevole. Circa dieci anni fa ad esempio in una commissione un chimico ha detto: "Ma come mai noi tedeschi dobbiamo pagare un progetto sulla lingua italiana? Perché non viene sostenuto dall'Italia? La cultura italiana in fondo non è importante solo in Germania..." Il finanziamento italiano è arrivato sei anni fa. È stato Rutelli quando era ministro a darmi 50.000 euro per mettere in rete il LEI, dimostrando di aver ben capito la sua importanza. Ora i primi otto volumi sono digitalizzati e disponibili in rete.

Quante persone collaborano al progetto del LEI?

Abbiamo solo tre collaboratori fissi, ma ci sono molti giovani italiani che hanno concluso il dottorato e non hanno ancora una cattedra. Nel frattempo continuano la loro specializzazione lavorando con me. I colleghi italiani come Serianni e Bruni mi mandano i loro assistenti, e questi lavorano con impegno enorme, lavorano anche durante il fine settimana, e il loro impegno e la loro passione per la lingua sono straordinari.

Quali sono gli strumenti e le metodologie di lavoro di questo tipo di ricerca?

Per quanto riguarda la metodologia, il modello resta il FEW di Wartburg (Pfister è stato per molti anni collaboratore di Walther von Wartburg, autore del FEW, Französisches Etymologisches Wörterbuch, opera di riferimento per l'etimologia e la storia del lessico francese, ndr). Abbiamo ormai cinque milioni di schede, corrispondenti a cinque milioni di vocaboli, tratte da testi e vocabolari, e dai vocabolari dialettali più importanti...  All'inizio fu Manlio Cortelazzo ad aiutarmi, e a indicarmi quali vocabolari schedare, e da lì ho cominciato. Man mano la copertura del territorio linguistico italiano si è fatta sempre più fitta, ora abbiamo circa mille località di indagine in Italia per tutti i dialetti. Lo scopo dei nostri sforzi è mettere la lingua italiana e i suoi dialetti al centro della Romània, per dimostrare come anche le altre lingue romanze dipendano dal nucleo latino originario. Quando si studia una lingua in questo modo si scopre che nei dialetti italiani si trovano spesso affinità con tutte le altre lingue romanze e i loro dialetti.

Si tratta quindi di indagini sul campo, ma anche di rovistare in biblioteche e archivi.

Sì, prendiamo in considerazione tutte le fonti, fonti scritte, trascrizioni dell'oralità e anche atlanti linguistici. Il pericolo alla fine è di naufragare perché abbiamo troppi materiali. Cinque milioni di schede sono un materiale enorme, una ricchezza. E d'altronde è una ricchezza che si perde, perché con la perdita dei dialetti si perde anche un patrimonio culturale. Forse noi possiamo salvaguardarlo un po'.

Un'opera così imponente vive quindi non solo di sussidi diretti ma anche indiretti, sfruttando gli investimenti che altri enti fanno, raccogliendo e conservando materiali inaspettatamente preziosi. L'ultima domanda diventa quindi obbligatoria.

Si dibatte molto in questi mesi in Germania sui sussidi pubblici alla cultura, e c'è anche chi propone di eliminarli completamente. Lei cosa ne pensa?

È un po' come Berlusconi che ha detto che con la cultura non si mangia. Quando dicono queste cose vuol dire che non hanno capito il mondo attuale.

C.G.

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