SOCIETÀ

La rete è nata per controllarci: parola di Michel Foucault

Da quando Edward Snowden ha iniziato a svelare i segreti di Prism, il gigantesco programma di spionaggio e schedatura messo in piedi dal governo degli Stati Uniti, il dibattito intorno alla privacy nella comunicazione attraverso il web, in particolare sui social network, si è di nuovo infiammato. In particolare il fatto che, secondo quanto rivelato dal Guardian lo scorso giugno, giganti come Apple, Google e Facebook abbiano collaborato attivamente con la Cia e l’Nsa, fornendogli dati sensibili e tracciati dell’attività degli utenti, sta contribuendo a sollevare il velo sull’enorme potere di cui oggi dispongono i gestori delle nuove piattaforme comunicative.

Del resto non si tratta di una novità: come è noto la rete infatti si basa su una tecnologia identificatoria che, a partire dall’indirizzo IP, permette la sorveglianza su ogni aspetto del comportamento degli utenti. I Social poi si basano sul concetto di condivisione: gli utenti si iscrivono proprio perché le proprie preferenze e comportamenti siano ben visibili e osservabili da una massa spesso indefinibile di altri utenti, benché – con ogni evidenza – l'estensione reale  di questo possibile pubblico sembri sfuggire alla stragrande maggioranza degli utilizzatori.

Perché allora lo facciamo? Come i social network stiano cambiando le nostre abitudini è l’argomento di numerosi studi, diversi dei quali già trattati nei mesi scorsi da “Il Bo”. Il potere socievole. Storia e critica dei social media, di Fausto Colombo (Bruno Mondadori 2013), si segnala in particolare per il tentativo, apprezzabile, di andare al di là della divisione tra ottimismo e critica, tecno-entusiasmo e cosiddetta net-delusion, cercando schemi di comprensione che evidenzino non solo le innegabili innovazioni, ma anche i fattori di continuità rispetto alla nostra storia recente.

Certo nessuno dice che le novità siano di poco conto. Se è vero che tutti i media, a cominciare da radio e televisione, nascono e vivono “sociali”, la particolarità del web 2.0 sta nel favorire interazioni partecipative, innescando dal basso comunicazioni orizzontali e multidirezionali, anziché verticali e unidirezionali. In questo senso è difficile limitare i social network all’ambito delle tecnologie comunicative: essi comportano potenzialmente un ripensamento degli schemi tradizionali di decisione, gestione e innovazione.

Se cambiano i modi di comunicare, cambia anche ciò che si comunica. Oggi a farla da padrone è il racconto del sé: dove si va, cosa si sta leggendo, pensando, mangiando. Spesso a questo riguardo si sottolinea il “narcisismo del web”; altri preferiscono parlare di “autocomunicazione di massa” (Self mass communication, secondo lo studioso spagnolo Castells) o di una società sempre più “chiacchierona” (Talketive society). Anche l’aggressività trova però le sue vie di espressione attraverso vari fenomeni. I troll, per esempio, che usano le piattaforme sociali esclusivamente per attaccare e insultare; c’è poi la tendenza alla polarizzazione delle opinioni, spesso accompagnata dal cosiddetto blaming: la denigrazione sistematica che caratterizza molte delle discussioni su internet.

La nuova sintesi tra apparecchiature e linguaggio richiede nuove abitudini percettive e intellettive. Ormai il computer connesso alla rete non è un canale a parte della comunicazione, bensì pervade tutte le forme di cultura e di comunicazione. Attraverso il processo noto come convergenza digitale infatti tutte le informazioni (compreso il nostro patrimonio genetico) tendono ad essere espresse, comunicate e conservate attraverso il codice binario. Ora le neuroscienze ci dicono che le parti del cervello attivate dalla lettura di un libro sono differenti da quelle utilizzate per l’uso di un computer, con diverse modalità di analisi e di comprensione. Senza dimenticare che il web crea segni e linguaggi peculiari, dal cosiddetto “umorismo wiki” ai meme (per usare un neologismo introdotto da Richard Dawkins): concetti che si diffondono in rete in modo virale e pressoché autonomo, proprio come geni impazziti. 

Se l’impatto di questi fattori è ormai indiscutibile, allo stesso tempo però essi non sembrano ancora comportare un mutamento essenziale del modello comunicativo e sociale. In effetti poche delle caratteristiche dei social network, in sé considerate, sono totalmente innovative. Addirittura alcune abilità come la scrittura, data quasi per morta con gli albori della società dell’immagine, negli ultimi tempi ha conosciuto un sorprendente revival, per la verità già iniziato con gli sms dei telefonini. L’integrazione tra parole e immagini poi, tipica dei meme, era già stata realizzata ai tempi del cinema muto, e dal fumetto. 

Questa incongruenza tra potenzialità e prassi si può vedere anche negli ambiti in cui l’incidenza del web 2.0 è più spesso sottolineata. Il presidente Obama ad esempio, le cui modalità di comunicazione sono state studiate in tutto il mondo, troverà mai il tempo di leggere i post delle oltre 600.000 persone che segue su Twitter? Oppure, in questo come in altri casi, si tratterà semplicemente di un canale come un altro per diffondere slogan e informazioni, piuttosto che per una reale condivisione delle decisioni? 

I social media, poi, possono essere un efficace canale per la controinformazione, ma presentano anche aspetti inquietanti: permettono infatti, a differenza dei media tradizionali, una crescente capacità di controllo sugli utenti.  Questo non significa che i social network siano necessariamente un mostruoso stratagemma inventato dal Potere per controllarci. Esse rappresentano piuttosto, secondo una ricostruzione che Colombo attinge a Michel Foucault (in particolare a Sorvegliare e punire), l’esito naturale dell’evoluzione del rapporto tra individuo e società, caratterizzato dal passaggio dal concetto di sovranità, tipico dell’Ancién Regime, a quello di autodisciplina, che invece contraddistingue la modernità.

Il web si presta quindi a diventare il luogo del controllo statale e sociale (ma anche da parte delle Net Corporation)nei confronti dell’individuo, proprio come nel Panopticon immaginato da Bentham. Un carcere tanto più efficace in quanto ognuno ha la consapevolezza di poter essere osservato in qualsiasi momento, a prescindere dal fatto che questo accada nella realtà. Una Surveillance diffusa – o interveillance, usando un termine proposto dall’autore – in cui tutti sono a loro volta sia controllori che controllati, e che fa sì che a volte internet possa diventare il canale della manipolazione, piuttosto che della collaborazione e della ricerca della verità.

Daniele Mont D’Arpizio 

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