SOCIETÀ

Elezioni americane, il momento del gender

I primi dibattiti democratici della campagna per le Presidenziali 2016 negli Stati Uniti hanno messo in evidenza il ruolo chiave che l’elettorato femminile potrebbe avere l’anno prossimo: Hillary Clinton in particolare sta indirizzando gran parte del proprio messaggio alle donne americane, ben più esplicitamente di quanto avesse fatto durante la prima corsa alla Casa Bianca nel 2008. “Penso che diventare la prima donna presidente sarebbe un bel cambiamento rispetto ai presidenti che abbiamo avuto in passato, incluso il presidente Obama”, ha risposto Clinton quando durante il dibattito le è stato chiesto come una sua eventuale amministrazione si differenzierebbe da quella attuale. Tra le proposte politiche da lei avanzate, inoltre, rivestono una funzione centrale quelle legate alla sfera della famiglia, a partire dal progetto di una legge che istituisca permessi di maternità e paternità pagati per tutti i lavoratori americani (oggi questo diritto non è sancito a livello federale e sta ai singoli datori di lavoro decidere se e come accordare tali congedi).

Per Clinton, ovviamente, questa è una disposizione naturale, sia in quanto donna sia come culmine di una lunga carriera in politica e al governo durante la quale si è spesso adoperata su questi temi. Ma è anche una tattica intelligente, giacché le donne rappresentano una fetta maggioritaria della popolazione degli Stati Uniti. Nel 2014, ne costituivano il 50,8%. Esse, inoltre, votano storicamente in percentuali più alte degli uomini. Nel novembre 1984, ad esempio, quando Ronald Reagan venne rieletto a un nuovo mandato, andò alle urne il 63,5% delle donne e il 61,7% degli uomini. Nel 1992, quando si impose per la prima volta Bill Clinton, votò il 66,3% dell’elettorato femminile e il 64,6% di quello maschile. Nel 2012, parteciparono al voto che vide la seconda vittoria di Barack Obama 71,4 milioni di elettrici, il 63,7% di quelle che ne avevano i requisiti, contro 61,6 milioni di elettori, il 59,8% degli aventi diritto.

Si tratta di un panorama particolarmente fertile per Clinton anche perché le donne americane sono da sempre più vicine al Partito Democratico che non al Partito Repubblicano. “Anche questa volta gli uomini saranno più repubblicani e le donne più democratiche – dice Kyle Kondik, Managing Editor del sito web di proiezioni elettorali Sabato’s Crystal Ball, un progetto del Center for Politics dell’Università della Virginia – È così nella politica americana almeno a partire dal 1980, quando emerse il primo gender gap [basato sulla differenza nelle preferenze politiche dell’uno e dell’altro sesso, ndr]. In generale, le donne sono più liberal e gli uomini più conservatori rispetto a una lunga serie di questioni”. Se, nel 1988, votarono per il primo Bush, George H. W., il 50% delle donne e il 57% degli uomini, nel 1992 votarono per Clinton il 45% delle donne e il 41% degli uomini (va ricordato che hanno preso parte a quella tornata elettorale tre candidati, Clinton, Bush e l’indipendente Ross Perot). E ancora, nel 2000, il 53% degli elettori, ma solo il 43% delle elettrici, scelse George W. Bush, mentre nel 2008 si espressero per Obama il 56% di donne e il 49% di uomini.

Non sorprende quindi che Hillary Clinton, donna e democratica, sia data come favorita tra le elettrici, sia a livello di elezioni primarie sia per quanto riguarda il voto dell’8 novembre prossimo. Già nelle primarie del 2008, aveva ottenuto più voti femminili di Obama, anche se in numero non sufficiente a consentirle di conquistare la nomination di partito. I suoi più pericolosi rivali di quest’anno, il senatore del Vermont Bernie Sanders, il governatore del Maryland Martin O’Malley e chissà, il vice-presidente Joe Biden, hanno senz’altro meno appeal di Clinton tra le democratiche americane. “Penso che [per vincere tra le donne] gli altri candidati avrebbero bisogno che la campagna prendesse una piega nuova e inattesa, come ad esempio nuovi scandali in casa Clinton”, dice Kondik.

Grazie in particolare al sostegno delle elettrici, Clinton è considerata complessivamente ben posizionata non solo per la nomination ma anche per la Casa Bianca, nonostante la sua campagna elettorale sia cominciata in maniera piuttosto goffa. La aiuta il fatto che è assai più fluida, invece, la situazione nel Grand old party (Gop), i cui tanti candidati in corsa stanno per il momento dividendo la base conservatrice in gruppetti che sono di per sé statisticamente irrilevanti. L’unica tendenza di rilievo che emerge dai sondaggi repubblicani riguarda Donald Trump, ed è l’esatto opposto di quanto si è visto con Clinton. “Trump sta facendo senz’altro meglio tra gli uomini che tra le donne, e in maniera piuttosto marcata – dice Geoffrey Skelley, anch’esso di Sabato's Crystal Ball – È l’unico candidato del Gop che vanta un gender gap consistente trai propri sostenitori, anche se [Carly] Fiorina fa di solito leggermente meglio tra le donne che tra gli uomini. La base di sostenitori di [Ben] Carson non è costante, talvolta ‘vince’ più uomini, talvolta più donne”.

Fiorina, ex amministratore delegato di Hewlett-Packard e già candidata in California per un posto al Senato di Washington nel 2010, è sì l’unica donna a correre per il Gop, ma sulle questioni che muovono il voto delle elettrici americane, dai permessi di maternità all’aborto, ha posizioni altrettanto, se non più, conservatrici dei colleghi uomini. Questo la rende sicuramente interessante nelle primarie, ma assai meno plausibile nelle elezioni generali. Se, l’anno prossimo dovesse vincere un candidato repubblicano, che non fosse Fiorina naturalmente, è facile immaginarsela nel ruolo di vice-presidente, o di un qualche ministro della futura amministrazione.

Ad oggi, però, i numeri suggeriscono piuttosto una presidenza Hillary Clinton.  

Valentina Pasquali

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