CULTURA

Fascismo e violenza, un binomio inscindibile?

Matteo Millan ha già trovato spazio nella sempre vivace discussione anglosassone sulla storia del fascismo quando, nel 2013, ha pubblicato il saggio The institutionalisation of Squadrismo: disciplining paramilitary violence in the Italian Fascist dictatorship su una rivista importante come Contemporary European History. Oggi, con la pubblicazione di Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, abbiamo anche un libro completo e interessante.

Nell’interpretazione di Millan sta sopra di tutto la centralità della violenza nel regime fascista: violenza politica e sociale ma anche culturale. Secondo Millan, gli squadristi praticavano la violenza come atto naturale, viscerale: essa definiva il loro concetto di fascismo e le loro vite di ‘nuovi uomini fascisti’. Falsa sarebbe insomma qualsiasi idea che Mussolini e il regime abbiano rinunciato violenza dopo la Marcia su Roma, preferendo una ‘normalizzazione’. Riflette infatti l’autore: “Se visti nella loro comune finalità, normalizzazione governativa e illegalismo squadrista appaiono due piani di un’unica strategia politica. Entrambi perseguono il medesimo obiettivo d’integrale conquista della società e di realizzazione di un progetto totalitario di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione”.

Certo alcune ‘teste calde’ furono epurate, ma molti vecchi squadristi trovarono comode nicchie in cui sistemarsi dentro le organizzazioni del partito e nella macchina in perenne espansione della burocrazia statale. Tipi come Renato Ricci da Massa e Carrara, che divenne capo dell’Opera Nazionale Balilla, sottosegretario del ministero dell’educazione nazionale (1929-1937), ministro delle corporazioni (1939-43) e comandante della guardia nazionale repubblicana sotto Salò, e che durante la sua ascesa continuò a usare le squadre come armi di attacco o difesa nelle continue battaglie fratricide dentro il fascismo.

“Nonostante le epurazioni sembrino dimostrare il contrario – scrive di Millan parole brucianti – le pratiche, le mentalità, i modi di interpretare la politica propria dello squadrismo hanno rappresentato un bagaglio di esperienze che hanno influenzato in maniera determinante la natura totalitaria del fascismo. Se lo Stato ha potuto diventare indiscutibilmente fascista lo deve in gran parte al partito e ai suoi uomini… Il partito non si dà senza lo Stato, e lo Stato non si dà senza il partito, ma soprattutto né l’uno né l’altro si danno senza fascismo”. Proprio in questo, secondo lo studioso, possiamo osservare come la violenza, una violenza criminale, eterna e senza fine, fu – forse – la vera chiave del fascismo e la versione italiana del totalitarismo.

E io sottolinerei proprio il “forse”. Concordo in gran parte con Millan ma – anche perché la storia in una democrazia è, o dovrebbe essere, un dibattito, mai una verità completa e finale – devo esprimere qualche mio dubbio. Primo punto. Certamente la dittatura fascista si coprì di sangue e non fu una storia né del ‘buon italiano’ né del ‘Mussolini buonuomo’. Come ho scritto nella mia biografia di Mussolini, ogni studio sul fascismo dovrebbe cominciare con un conto delle vittime: un milione circa, considerando anche le colonie. La dittatura fascista fu brutale, guerrafondaia, corrotta e, in molte cose incompetente, lasciando macchie di sangue indelebili nella storia d’Italia e degli italiani fino ai nostri giorni. Tuttavia c’è un però. Sono sempre stato molto poco convinto delle interpretazioni che vedono l’Italia fascista come una società genuinamente ridotta all’atomizzazione individuale e al pieno controllo ideologico e politico, cui aspirava il totalitarismo. Ho deliberatamente scelto quindici anni fa per il mio sommario della storiografia sul Fascismo il titolo ‘The Italian dictatorship’, la dittatura italiana, anziché la dittatura fascista. E nemmeno oggi ho cambiato idea. 

Su questi temi è forse difficile fare ora un’analisi dettagliata ma, volendo essere brevi, restiamo  alla matematica e alla storia comparativa. Pur ammettendo le influenze reciproche tra fascismo e nazismo, Hitler e Mussolini, non è secondo me possibile rendere semplicemente eguali nel male le due dittature. Per fare un solo esempio, sono molto ostile al mito del buon italiano, ma non posso nemmeno accettare la tesi di Thomas Schlemmer, espressa nel libro Invasori, non vittime: la campagna italiana di Russia 1941-1943 (Laterza 2009), secondo la quale gli italiani in Unione Sovietica avrebbero semplicemente replicato la politica dei nazisti. 

C’è poi un secondo motivo di riflessione. Quando noi riflettiamo sui killing fields del fascismo, dobbiamo ammettere che i peggiori sono stati in Africa: almeno mezzo milione di persone massacrate, secondo gli storici di quelle nazioni, in Libia, Etiopia e il resto dell’Africa Orientale. Anche qui certamente c’è un filo che va verso il nazismo (come ha visto Hannah Arendt), ma non dobbiamo dimenticare che l’imperialismo italiano in Africa era anche un imperialismo europeo, per quanto “ritardatario”. C’è quindi un nesso anche con il comportamento del Belgio nel Congo, o con quello della Gran Bretagna nel mondo (nella Seconda Guerra Mondiale in Bengala, per esempio) o con quello australiano in Nuova Guinea o verso gli stessi indigeni. Ha ragione Millan a mostrare i massacri degli ex-squadristi nell’impero, come quelli che ad esempio seguirono l’attentato contro Graziani. La storia dell’impero italiano non fu però solamente fascista: era anche una storia monarchica, liberale, nazionale.  E abbiamo bisogno urgente che storici italiani, magari in collaborazione con storici etiopici e libici, facciano maggiore luce in questo campo.

Infine, un terzo punto molto generale. Credo sia il momento di andare oltre le idee di Emilio Gentile sul fascismo come rivoluzione antropologica per creare nuovi uomini e nuove donne. È giusto chiedere che il fascismo sia letto dentro i suoi propri termini, ma è anche importante riconoscere che nessuna rivoluzione ha successo nel cambiare completamente tutte le vite, tutte le idee, tutti i comportamenti della sua popolazione. Non ci riuscirono nemmeno la rivoluzione francese, quella russa o quella cinese, e non ci riuscirà, spero, nemmeno la rivoluzione liberista dei nostri giorni, in cui temo sarà possibile vedere un giorno una nuova versione di totalitarismo, stavolta non dello stato ma invece del mercato.

Se prendiamo da Fernand Braudel la metafora e il modello della divisione della storia dell’umanità in tre parti – l’histoire événementielle (la storia degli eventi), l’histoire de moyenne durée (la storia delle congiunture) e l’histoire de longue durée (la storia delle strutture) – possiamo accettare che il fascismo di Emilio Gentile o gli squadristi di Matteo Millan  rappresentino una storia importante di eventi terribili e tragici. 

Però, specialmente 90 anni dopo, abbiamo anche il dovere di analizzare strutture e congiunture grandi: il cattolicesimo, la famiglia, le relazioni tra padrone e clienti, le raccomandazioni, la corruzione, la storia di genere. 

Esplorando questi grandi temi, possiamo forse dire che il fascismo ha provato ad essere totalitario, ma non ha vinto in tutti questi settori della vita: insomma non ha totalmente cambiato il world view – la visione umana – degli italiani. È insomma il momento di dare enfasi al fatto che, se vogliamo arrivare a una storia complessiva dell’era tra le due guerre, dobbiamo provare a combinare la storia corta e la storia lunga, la storia del fascismo e le molteplici storie vecchie e durature degli italiani (e delle italiane); con il rischio di scoprire che il peggio non ha solo il marchio d’infamia del fascismo sconfitto, ma un’impronta autenticamente italiana.

R. J. B. Bosworth 

 

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