SOCIETÀ

Un giorno con Lucia

È stata la prima donna medico ebrea d’Italia laureata in chirurgia e ostetricia, Lucia Servadio Bedarida. E non solo. Raccontano di lei e della sua bella storia, Olivia Fincato e Renato d’Agostin nel libro ‘Un giorno con Lucia’ (2007, Zeropuntozerozero edizioni) presentato a Padova in occasione del Festival della Maternità (13-15 aprile).

L’incontro, organizzato da Kairos donna, associazione a tutela della salute mentale della donna e della famiglia, ha visto la partecipazione della ginecologa Daria Minucci e dell’antropologa Mara Mabilia. “La figura di questa donna - spiega Minucci - e quella che lei definisce la sua missione di vita, dare e garantire vita, sono la piena espressione di quello che è la maternità, un evento umano fondante e fondamentale della vita perché si è madri, padri e figli per sempre. E la scelta di questo libro non è stata casuale. “Medico donna ebreo in un paese musulmano, la sua missione era quella di ‘garantire la vita’ aiutando chiunque ne avesse bisogno e superando ogni barriera culturale, territoriale, religiosa. Una donna aperta agli altri’. Così la introduce Oliva Fincato, giornalista freelance che con il fotografo Renato d’Agostin ne ha raccolto un’intensa testimonianza di vita, incontrandola a poche settimane dalla morte nella sua casa americana di Cornwall on Hudson, nello stato di New York. Nata ad Ancona nel 1900 in una famiglia di origini ebraiche, Lucia Servadio Bedarida si laurea in Medicina a Roma nel 1922.

È il 1923 quando a Torino sposa il medico Nino Vittorio Bedarida al fianco del quale lavorerà per qualche tempo proprio nell’ospedale torinese. Nel 1930 la famiglia, erano nate nel frattempo due delle tre figlie che la coppia ebbe, si trasferì a Vasto, in Abruzzo, a seguito della nomina del marito a primario del reparto di chirurgia dell’ospedale cittadino.

Ma l’Italia in cui Lucia si appresta a vivere quegli anni è un Paese instabile, precario, difficile. È l’Italia del primo dopoguerra, del fascismo, delle leggi razziali che nel 1939 costringono l’intera famiglia a trasferirsi in Marocco, a Tangeri dove Lucia Servadio resterà per 40 anni lavorando, in collaborazione con il governo e le istituzioni marocchine, come unico medico donna della città. Qui, donna a occuparsi di donne, incontra il favore della comunità locale guadagnandosi anche l’affettuoso appellativo di ‘Mama Rida’ (lei che ha dato la vita a molti bambini). Negli anni ’60 viene nominata referente per il Marocco dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalle Nazioni Unite e quando nel 1965, dopo la morte del marito Lucia rimane sola, decide di rimanere a Tangeri e proseguire qui la sua opera. “Con tutti questi incarichi e impegni – diceva - la mia attività era intensa ma con orgoglio posso affermare di non aver mai considerato la medicina come un mestiere per fare denaro e diventare ricca, ma come uno studio continuo per perfezionare la mia conoscenza e aumentare la mia capacità di curare chi, in cerca di aiuto, a me ricorreva”.

Nel 1981 raggiunge le figlie che vivono con le loro famiglie negli Stati Uniti dove muore nell’aprile del 2006 a 106 anni.

Ultracentenaria lei, 26 anni tu. Qual è stato il vostro punto d’incontro? “Lucia è entrata nelle nostre vite quasi per caso, in un attimo, in un giorno – racconta Olivia Fincato. L’ho conosciuta perché una mia parente che vive poco lontano da New York un giorno mi ha parlato di lei e di come questa donna fosse stata illuminante per la sua vita e ha insistito perché la vedessi. Il nostro primo incontro è stato breve. Lucia era seduta su di una poltrona ricamata e mentre mi raccontava la sua storia, si è improvvisamente fermata. Quella poltrona apparteneva alla madre deportata e uccisa ad Auschwitz assieme alla nonna e il dolore di quel ricordo era troppo forte per continuare il suo racconto. Mi ha chiesto di andarmene e io, un po’ scossa, ho fatto quello che mi chiedeva; ma mentre stavo per uscire mi ha fermata e mi ha detto – però torna presto, mi raccomando”. E sono tornata.

Perché la scelta di fare di questo incontro un libro? “Quando abbiamo conosciuto Lucia non avevamo un progetto preciso. Dopo pochi mesi dal nostro incontro lei è mancata e io e Renato ci siamo resi conto di quanto prezioso fosse quello che ci aveva lasciato. Le sue parole, ma anche alcune bellissime immagini che Renato è riuscito a scattare durante il nostro incontro. Non potevamo che metterle insieme. E quello che ne è uscito è un progetto editoriale che racconta, attraverso una scrittura, acerba, diretta, che viene dritta dal cuore, uno scambio emotivo tra due generazioni che si incontrano, si scoprono, si ascoltano. Non so spiegare perché quella donna sia stata così magnetica per noi. Pur conoscendoci appena, di noi lei si è fidata; ci ha aperto le porte della sua casa, della sua vita e ci ha consegnato il suo passato che era insieme anche il suo futuro. Perché è anche attraverso questo libro che la sua esperienza professionale e umana continuano ancora oggi ad avere voce.

Cosa ti ha colpito di lei? Lucia non era solo un medico, una madre, una moglie. Amava molto scrivere. Nel corso della sua vitacollabora con la rivista femminile americana ‘Journal of american women’s association’ e con il giornale spagnolo ‘Diario España’ e nel 1967 scrive addirittura un saggio dedicato all’antica medicina araba e alla sua influenza sul pensiero medico occidentale. Lucia viaggiava molto, conosceva cinque lingue anche se l’inglese era quella che padroneggiava meno. È arrivata in America a 80 anni e non sentiva quella terra ‘sua’. Diceva - le radici degli alberi se trapiantati vecchi, attecchiscono con difficoltà -. E poi le lettere. Nella sua agendina c’erano centinaia di indirizzi di posta perché amava avere scambi epistolari con persone in diversi Paesi. Lucia ha davvero creato dei ponti invisibili di conoscenza e amore in tutto il mondo. Era una donna coraggiosa (a 105 anni si è addirittura lanciata con il parapendio!).

Cosa ti ha lasciato Lucia? E cosa credi possa lasciare in chi leggerà queste pagine?

Questo è un libro in cui lo scambio generazionale è forte, in cui una donna di 106 anni si apre a una giovane di 26. Mi sono chiesta diverse volte perché. Forse perché le generazioni più giovani a volte hanno bisogno di ancorarsi alla saggezza, di ritrovare nel vissuto di un secolo di vita, in questo caso, delle rassicurazioni, delle certezze da cui sentono di avere ancora molto da imparare. Io mi sono fermata su questa storia sia per la curiosità che mi ha suscitato, sia perché in quel particolare momento della mia vita (vivevo da pochi anni a New York, sola e di fronte a una nuova vita tutta da costruire), ho trovato in Lucia una sorta di luce che mi ha aiutato a capire come gestire questa vita divisa tra due mondi. Una luce che ancora oggi illumina.

Francesca Forzan

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