CULTURA

Il grande romanzo non è morto: è in TV

Di recente Alessandro Piperno (docente di letteratura a Tor Vergata e acclamato romanziere) sulle pagine del supplemento culturale del Corriere ha raccontato di una cena di letterati cui aveva preso parte dopo un convegno e durante la quale “si faceva un gran parlare di morte del cinema, morte della poesia, morte del romanzo, morte di tutto…” lasciando intendere abbastanza esplicitamente quanto l’atteggiamento gli sembrasse snob.

Sono in tanti in effetti a piangere sulla tomba del romanzo, ma, senza voler per forza entrare nel merito (dove li mettono McEwan, Coetzee, Roth, Marias, solo per citarne alcuni?), di certo non si può affermare con la stessa sicumera che le grandi narrazioni si siano esaurite.

Un esempio su tutti sono i serial televisivi: un fenomeno che dopo il boom, non conosce arresto. Da Sex and the City (1998-2004; per un totale di 7 Emmy Awards e 8 Golden Globes) e The Sopranos (1999 – 2007; con ascolti da record ovunque tranne in Italia, forse per gli stereotipi sugli italoamericani) fino al successo planetario di Lost (2004 – 2010; con ascolti da record che negli USA hanno toccato punte di 23 milioni di spettatori) e alle serie più raffinate e recenti come Mad Men (2007-2015) e la britannica Downton Abbey (dal 2010 ancora in produzione: nel 2011 è entrata nel Guinness dei primati come show più acclamato dalla critica), i serial TV godono di ottima salute.

Se in Italia infatti i cosiddetti “lettori forti” (che leggono in media un libro al mese – non certo cifre da capogiro) sono meno di quattro milioni, Lost ha collezionato nel nostro paese lo stesso numero di spettatori per ciascuna puntata, senza considerare gli accessi in streaming e le condivisioni illegali in rete. Eppure, come evidenzia un recente studio di Emanuela Piga, specializzata in letterature comparate alla Sorbona e ricercatrice all’università di Bologna, gli sceneggiatori delle serie TV non inventano nulla che il romanzo non conosca già. Damon Lindelof, uno degli ideatori di Lost insieme a J.J. Abrams e Jeffrey Liber, ha detto: “Bisogna guardare Lost, come si legge un libro: un capitolo alla volta”.

I punti di contatto tra le serie televisive e i grandi romanzi popolari (da I misteri di Parigi di Eugène Sue o I tre moschettieri di Dumas in Francia a Grandi speranze di Dickens in Inghilterra) sono davvero molti di più di quelli che si potrebbero immaginare: pur cambiando il mezzo di narrazione, le forme e le tecniche si perpetuano (la chiamano “mediamorfosi”).

Intanto la serialità: mutuata dalla tradizione orale delle saghe medievali, i romanzi ottocenteschi (conosciuti con il nome francese di feuilleton) venivano pubblicati a puntate con cadenza settimanale sugli inserti dei quotidiani (sui celebri Le Siècle o La Presse in Francia, mentre in Inghilterra Dickens pubblicava le proprie opere sulla rivista All the year round da lui stesso fondata). Non è un caso che ciò avvenga contestualmente ai neonati processi di industrializzazione: maggiori possibilità di “riproduzione” e l’abbattimento dei costi permettono infatti una fruizione più ampia. Nell’Inghilterra vittoriana, ad esempio, anche governanti, calzolai ed operai potevano permettersi di leggere l’ultima puntata del romanzo di Dickens, mentre l’acquisto di un libro avrebbe costituito con tutta probabilità, per gli esponenti delle classi popolari, una spesa proibitiva. Allo stesso modo oggi la televisione e internet sono mezzi attraverso cui l’esperienza estetica si dà per una spesa contenuta, e divengono luoghi d’elezione per i serial che, come le puntate del romanzo d’appendice, accompagnano lo spettatore per un tempo prolungato e cadenzato in appuntamenti fissi.

Anche le tecniche di costruzione dell’esperienza estetica sono in gran parte le stesse, la più evidente (e abusata) delle quali è l’utilizzo del cosiddetto twist (letteralmente: “giro di vite”, ossia il colpo di scena), chiamato cliffhanger in gergo televisivo: la narrazione di un episodio (in letteratura di un capitolo) si conclude con una brusca interruzione proprio in corrispondenza di un disvelamento, o, in generale, di un momento di forte suspense. Chiunque abbia visto Lost non può non ricordare che la prima serie si interrompe proprio nel momento preciso in cui tre dei protagonisti (superstiti, insieme ad altri 48, di un disastro aereo e approdati su un’isola misteriosa) riescono finalmente ad aprire la botola nel terreno che rivelerà loro qualcosa in più – forse – sull’identità degli Altri – esseri umani o alieni– che abitano l’isola. Questo stratagemma è valso al serial un record di ascolti alla prima puntata della serie successiva, ma è vero che tutti i finali degli episodi sono volutamente sospesi, così come pressoché tutte le puntate dei feuilleton lasciano il lettore immerso in un sentimento di attesa: resta traccia di questo tipo di distribuzione della trama nella ristampa in forma di libro, dal momento che dal taglio del capitolo si riconosce il taglio della puntata.

Roland Barthes evidenzia come questo “movimento” accentui la struttura interrogativa della narrazione, che deve rispondere a quattro possibili domande (chi?, che cosa?, come andrà a finire?, in che modo?) ma lo deve fare il più lentamente possibile, perché il ritardo nel disvelamento è all’origine della tensione drammatica.

Ecco perché sia nei romanzi popolari che nei serial tv l’attenzione del fruitore è puntualmente deviata dall’enigma e concentrata di volta in volta su altri sentieri narrativi. Ne I misteri di Parigi Sue apre il capitolo quindicesimo scrivendo: “Il lettore ci scuserà se abbiamo lasciato una nostra eroina in una situazione così critica, situazione di cui diremo più avanti lo scioglimento” e per trentadue capitoli si occupa d’altro. Analogamente in Lost sono continui i flashback che approfondiscono e insieme fungono da diversivo, e le puntate dedicate interamente ad un singolo personaggio, che, come nei romanzi d’appendice, incarna un tòpos narrativo (il fuggiasco, la fanciulla abbandonata e perseguitata, il salvatore dell’umanità, l’onnipotente ecc.). E se il mistero viene conservato il più a lungo possibile, il racconto letterario come quello televisivo sono costellati di “agnizioni” molto spesso a partire dal classico schema del “falso sconosciuto”, entrambi espedienti utili a mantenere alta la tensione del lettore/spettatore.

Anche i temi, non solo le strutture formali, si richiamano tra serial e grandi romanzi popolari: uno su tutti l’archetipo dell’isola misteriosa e selvaggia, non certo frutto dell’invenzione di J.J. Abrams per Lost, ma che risale all’Odissea, ed è stato riproposto nei secoli ne La Tempesta di Shakespeare, Le avventure di Robinson Crusoe di Defoe e I viaggi di Gulliver di Swift nel Settecento, o ancora nei successivi L’isola del tesoro di Stevenson e L’isola misteriosa di Jules Verne.

Ma anche il romanzo popolare ha i suoi grossi debiti, in particolare nei confronti del mèlo francese, gloriosa tradizione interclassista fruito in Francia dalle classi più umili, dalla media borghesia e dall’aristocrazia tutte. E come il melodramma veniva rappresentato in teatro, anche dei romanzi ottocenteschi era data lettura in occasioni pubbliche (come prima ancora avveniva per cantari trecenteschi, o per l’epica classica e rinascimentale): le puntate di Grandi speranze di Dickens, romanzo a cavallo tra il feuilleton e il nascente romanzo realista (ibridazione presente anche nei romanzi di Flaubert, Balzac, George Eliot, Dostoevskij, Tolstoj e non solo, usciti a puntate ma già di stampo realista) furono lette pubblicamente dall’autore ed ebbero istantaneamente un successo tale da essere riprese oltreoceano a distanza di una sola settimana dall’uscita in suolo britannico.

Eppure gli stilemi della narrazione erano, nelle opere di questi celebri narratori di fine Ottocento, decisamente mutati rispetto al feuilleton, incontrando comunque il gusto del pubblico: l’allentamento del twist si accompagnava ad una maggiore introspezione psicologica dei personaggi (frequenti i romanzi di formazione), il passo narrativo era più lento, l’attenzione spostata sul contesto sociale, e nella struttura compiuta “ a libro” non si riconoscevano più i tagli delle singole puntate in corrispondenza della chiusura dei capitoli, perché non era più la suspense il motore della narrazione.

La stessa evoluzione, con uguali caratteristiche, è rintracciabile nei prodotti nel mezzo televisivo: in Mad Men il serial di Matthew Weiner ambientato in una società di pubblicitari newyorkese negli anni Sessanta, le vicende dei protagonisti (anche in questo caso, come in Lost e come nei romanzi “seriali”, una coralità di personaggi) sono lo strumento attraverso cui raccontare la società americana dell’epoca, con i suoi grandi cambiamenti. Il conflitto tra autodeterminazione e pressione sociale è emblematico nel caso del protagonista, Don Draper, un “evaso sociale”, e delle figure femminili che fanno propria la battaglia di quegli anni per l’emancipazione. I toni non sono però melodrammatici, i dialoghi sono credibili, l’introspezione ben riuscita attraverso lunghe carrellate sui personaggi silenti e la fotografia raffinata. Il finale di puntata non è mai sospeso, così come non lo è più negli episodi letterari del romanzo realista: la ricerca è quella di un senso di verosimiglianza, come direbbe Barthes. Nulla ricorda la discendenza delle serie contemporanee dalle vecchie soap opera, nonostante è proprio da lì che vengono.

Assistiamo dunque ad una costante ibridazione delle forme che ricorrono a tecniche già collaudate ma che devono declinarsi nei mezzi che più degli altri hanno pubblico (oggi la sfida è sempre dettata dalla tecnologia), ma non necessariamente. Avviene anche il contrario: il libro La Nave di Teseo concepito da J.J. Abrams e scritto da Doug Dorst è un meta-romanzo in cui, oltre al testo, sulle pagine sono presenti le annotazioni di due lettori alla ricerca dell’identità del romanziere; un esperimento, dunque, che cerca di amplificare l’esperienza della lettura.

E se qualcuno crede che le narrazioni a puntate sui giornali siano morte, si faccia mandare una copia di uno dei principali quotidiani giapponesi e scoprirà come nascono i manga.

Valentina Berengo

 

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