SOCIETÀ

“Fuori famiglia”: la parola ai ragazzi, in prima persona

Temi già indagati, ma visti da una prospettiva totalmente nuova: sembra strano, ma nelle mille indagini sul disagio minorile, su affidi familiari e comunità, quasi mai si è chiesto ai minori coinvolti come hanno vissuto quest’esperienza. Questa la novità principale della ricerca Crescere fuori famiglia. Lo sguardo degli accolti e le implicazioni per il lavoro sociale, condotta da Valerio Belotti, Paola Milani, Marco Ius, Caterina Satta e Sara Serbati dell’università di Padova e pubblicata dall’Osservatorio regionale politiche sociali della Regione Veneto.

Sono 29.309 in Italia i bambini e gli adolescenti accolti nelle famiglie affidatarie e nelle comunità, per crescere temporaneamente in un ambiente protetto, al di fuori di famiglie problematiche (per inadeguatezza genitoriale, problemi di dipendenza o sanitari dei genitori, problemi relazionali, maltrattamenti, incuria). Aumenta negli ultimi dodici anni il ricorso all’affido familiare, rimane stabile l’invio nelle comunità, per arrivare a una sostanziale parità delle due soluzioni, come riporta il recente rapporto commissionato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.

Negli ultimi anni c’è stato indubbiamente un processo di rinnovamento e umanizzazione dei servizi sociali di protezione e tutela, ma la prospettiva è rimasta, come spiega Valerio Belotti, “adultocentrica, costruita cioè a partire dalle consapevolezze e dagli apprendimenti legati alle esperienze degli operatori, degli amministratori, degli esperti”. Secondo lo sguardo, cioè, degli operatori che in questi anni, “in nome del benessere dei bambini, hanno messo in campo nuove pratiche, pensate certamente per il rispetto dei diritti umani degli accolti”. Operatori che però, come emerge dalle testimonianze rese sulla loro esperienza ad alcuni anni di distanza dai giovani già in affidamento, tendono ancora spesso a vedere il minore bisognoso di tutela come unico soggetto dell’intervento. 

Anche se è molto complesso trovare le modalità adatte per coinvolgere i minori, questi interventi tradiscono infatti nella gran parte dei casi la convinzione che i bambini siano persone non ancora in grado di comprendere e affrontare situazioni di difficoltà; la ricerca sottolinea invece come gli intervistati siano alla costante ricerca di senso sulla propria biografia, preoccupati per i genitori, consapevoli dei problemi delle loro famiglie, dei quali quasi tutti danno una propria interpretazione, nella quale si fondono elementi reali e immaginazione. Rimane loro, a distanza di tempo, la sensazione desolante di essersi dovuti costruire in solitudine questa interpretazione, visto che - come sottolinea  Paola Milani - “nelle interviste non è narrato quasi nessun intervento degli operatori verso i bambini rispetto alla rappresentazione della famiglia d’origine, alle difficoltà che hanno causato l’allontanamento”.

Una seconda, importante fonte di disagio è la non corretta o non completa informazione sulle decisioni prese sulla loro vita: spesso ai minori non viene comunicata la durata prevista dell’affido, le motivazioni e i tempi dell’allontanamento dalla famiglia, e questo impedisce loro di prepararsi ai passi fondamentali della loro crescita. Dalle testimonianze sembra inoltre che gli interventi degli operatori si concentrino sul bambino, mentre i bambini stessi vorrebbero venissero aiutate anche le loro famiglie. I ricercatori invitano ad assumere una concezione relazionale del benessere dei bambini e della protezione, visto che il loro benessere dipende in gran parte dalla qualità delle relazioni: bisogna includere i genitori negli interventi, per garantire il senso di appartenenza alla famiglia di origine, per salvaguardare la storia, la continuità dei legami affettivi, in modo che i ragazzi non smarriscano quei ricordi che fondano la loro identità personale. Garantire nel nuovo contesto una possibilità di attaccamento e sicurezza non esclude infatti di mantenere i legami precedenti: ogni bambino può costruire una gerarchia e una rete di rapporti, affiancando ai genitori d’origine i genitori affidatari e/o gli educatori della comunità, che assumono il ruolo di co-genitori. Altre relazioni fondamentali sono quelle con i volontari, con i fratelli (d’origine o della famiglia affidataria) e con i compagni di comunità, con ruoli diversi e intermedi tutti da valorizzare.

Ma non sono solo punti critici quelli che emergono dal punto di vista dei ragazzi allontanati dalla famiglia anni prima. Leggiamo storie di accoglienza e supporto affettivo ed emotivo, storie di ragazzi che imparano a guardare avanti: la maggior parte dei giovani intervistati considera molto o abbastanza positiva l’influenza dell’esperienza in affido (95%) o in comunità (92%) sulla sua vita in generale, e mantiene successivamente a quest’esperienza relazioni con la famiglia affidataria (85%) o gli educatori della comunità (71%), facendo alcune feste insieme e scambiando consigli sulla vita.

Molti altri aspetti sono indagati dalla ricerca: i ricordi sono quelli di ragazzi oggi ventenni e fanno  riferimento a vicende anche di una decina di anni fa, ma sono indicativi del punto di vista di bambini e adolescenti su fasi delicate come la prima accoglienza, il passaggio da una comunità all’altra o a famiglie in affido, le difficoltà nell’uscire all’improvviso da una realtà protetta. Raccontano punti di forza e debolezza delle diverse soluzioni: la dimensione familiare dell’affido, nella quale talvolta si fatica a entrare davvero, la difficoltà di adattamento a nuovi orari, regole e stili di vita, la forza della comunità nell’incontro con i propri simili.

Crescere fuori famiglia. Lo sguardo degli accolti e le implicazioni per il lavoro sociale”,  è una base di lavoro fondamentale per gli operatori, che possono arricchire la loro esperienza con nuovi punti di vista, sensibilità, suggerimenti, e una lettura che può incuriosire tutti, con racconti freschi e schietti che portano senza difficoltà in un mondo solo apparentemente lontano.

Elisabetta Menegatti

 

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