SOCIETÀ

All we need is love (e 99 password)

Il New York Times ha dedicato qualche giorno fa una lunga analisi, a cura di Ian Urbina, al mondo delle password, fide, segretissime parole magiche che schiudono quotidianamente l'accesso ai nostri universi paralleli: principalmente corrispondenza, social network e conti in banca, vale a dire le stanze dei segreti e la grotta del tesoro dei 40 ladroni. Proprio come successe a Kassim - lo sventurato cognato di Ali Babà (non a caso nome del più grande negozio on line del mondo) che dimenticò il nome della spezia (il benefico sesamo), nulla si aprì e male gliene incolse - anche a ognuno di noi capita in continuazione di scordare le chiavi criptate di forzieri e caselle di posta elettronica, esattamente in ragione della loro pervasiva presenza nelle nostre esistenze. L'espediente mnemonico più consueto, scrive Urbina sul NYT, è quello di usare le stesse, possibilmente semplici, password per account e servizi diversi. Questo anche se le piattaforme di banking online e i servizi di email si allarmano molto se le suddette parole d'ordine suonano poco inespugnabili e misurano la temperatura della loro sicurezza: sempre bassissima, a sentir loro, anche se scrivi una parola ugrofinnica e non sei ugrofinnico.

In Eyes wide shut di Kubrick è la rivelazione di una parola chiave (Fidelio, nel film; Danimarca nel romanzo di Schnitzler) e l'inganno su un preteso secondo codice che permette al dott. Harford/Tom Cruise di accedere al sogno orgiastico della setta segreta (e per poco lasciarci le penne); stando alla ricerca di Urbina spesso accade qualcosa di simile anche nelle vite comuni. Il giornalista colleziona storia di password e illustra nel pezzo gli esiti più esemplari di questa sua ricerca, invitando i lettori a contribuire con le proprie testimonianze scrivendogli (senza svelare password in uso) a urbina@nytimes.com. Storie spesso singolari.

"Caro Urbina, io uso come password i nomi degli amici immaginari delle mie figlie, e una volta li ho scordati e ho dovuto chiamare l'asilo nido e farmi passare le bambine perché non me lo ricordavo proprio chi c'era dopo Quaccudi e Pippo, nella loro cricca immaginaria".

Chi scrive gli ha confessato questo, ma c'è di peggio. La moglie, ad esempio, che ha scoperto che il marito usava per il conto in banca la data di nascita della ex, con le prevedibili conseguenze; e che dire del genio che, certo di dimenticarsela, usa come password "sbagliata", così sarà poi il sistema stesso a ricordarglielo involontariamente informandolo che "la tua parola d'ordine è sbagliata".

E trattandosi di commedia umana le storie sono spesso buffe ma purtroppo in molti casi dolentissime e funeste, anche perché Urbina ha una vera passione per quelle che chiama le password ricordo, codici di accesso anche a intimi dolori e privatissime vicende, stampate nella memoria e nascoste agli altri come cicatrici, come certi tatuaggi.

Basti pensare che l'inchiesta si apre con una storia legata all'11 settembre del 2001: è quella di Howard Lutnick, amministratore delegato di una delle più grandi società finanziarie del mondo, la Cantor Fitzgerald. A Lutnick, sopravvissuto per caso agli attacchi (aveva accompagnato il figlio al primo giorno di asilo), toccò in sorte di perdere nel disastro oltre al fratello centinaia di collaboratori e dipendenti e di essere coinvolto - il giorno stesso - nelle chiamate alle loro famiglie per una penosa intervista basata su domande come "Avete un cane? Come si chiama? In che data vi siete sposati da ragazzi? Quando sono nati i vostri bambini?". Questo per aiutare gli esperti di Microsoft ad avere accesso alle centinaia di conti e file su cui lavoravano i caduti e riaprire in tempi rapidi i mercati obbligazionari: agli algoritmi per forzare i computer serviva infatti il supporto di parole-scrigno, quelle dove si mettono i dettagli più cari ("che rendono le persone individui" spiega Lutnick) a seccare come fiori e che sono spesso sempre gli stessi. Tutte le famiglie felici si somigliano etc etc, e anche i babbei hanno spesso comportamenti uniformi: si veda lo scandalo delle foto piccanti rubate su I Cloud alle celebrities. La semplicità delle password usate tradisce forse remotamente la volontà di farsi scoprire, ma soprattutto "la semplicità degli universi emotivi di costoro". Ce lo conferma Caterina Marrone, semiologa e filosofa del linguaggio, nonché autrice de "I segni dell'inganno", cui abbiamo chiesto anche un commento sulla definizione che Paul Saffo dà delle password: cripto haiku. 

"È interessante la definizione, ma certo non è estensibile a tutte le password: molte sono banali e meccaniche. Senza dubbio alcune parole d'accesso possono essere particolarmente poetiche perché i loro autori hanno spirito verbale e lo usano a fini pratici. Probabilmente Paul Saffo ha intercettato molte di queste composizioni; del resto lo stesso nome dello studioso sembra un nomen omen perché Saffo si chiamava la grande poetessa le cui liriche (molte delle quali assai brevi) esprimevano le sue emozioni verso la divinità o altri esseri umani"

Caterina Marrone traccia l'identikit della perfetta password "Le sequenze d’accesso devono essere se non memorabili - il che sarebbe preferibile – almeno emblematiche, devono far parte della vita di chi le adopera. Per ricordare meglio si sa che ci sono almeno due condizioni: legare la password a eventi affettivamente ed emotivamente rilevanti e dargli, per renderla facile da ricordare,  un contenuto semantico, un significato per l’appunto; non affidarsi a pure sequenze di lettere o numeri".

Così le password diventano le parole d’ordine che rivolgiamo a noi stessi e che rientrano nella grande classe dei contrassegni che scegliamo in base a prontezza, ricordabilità, sicurezza, e forse anche banalità, ("perché sappiamo che prontezza, ricordabilità, sicurezza ulteriori, saranno assicurate dal cambiare spesso la nostra chiave d’entrata" spiega Marrone)

Tornando all'inchiesta del NYT, l'11-09-01 (11 settembre 2001) è sicuramente stata una password diffusa ma c'è un'altra data che ricorre più di tutte tra le parole chiave di accesso a computer e conti in banca: il 14 marzo del 1944. Che è successo quel giorno di tanto universalmente memorabile? Inutile cercare su wikipedia o su diconodioggi.it: la "data che apre i dati" (definizione dell'esperta di enigmi nell'arte Antonella Sbrilli) non è una vera ricorrenza, ma indica la quantità di lettere contenuta in ciascuna parola della frase "I love you very much", alias 14-3-44. Come le istruzioni di un rebus, perché, gira e rigira, nonostante tragedie e bassezze, esercizi intellettuali, segreti inconfessabili ed ego smisurati, All we need is love. 

Silvia Veroli

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012