SOCIETÀ

E se il matrimonio lo abolissimo?

E  se il matrimonio lo abolissimo? Un libro di Elizabeth Brake, Minimizing Marriage. Marriage, Morality and The Law (Oxford University Press, 2012) esamina a fondo le ragioni che giustificano questa istituzione alla luce dei diritti umani e della filosofia politica liberale.

La Brake inizia dimostrando che, storicamente, il “matrimonio” non identifica situazione uguali in tutte le epoche e in tutti i paesi. Non si tratta di un concetto con un significato univoco e non problematico. Anche volendo ignorare la principale variante di matrimonio eterosessuale – la poligamia ammessa dalla legge islamica - resta il fatto che le condizioni del contratto (ruolo della religione, età degli sposi, ruolo delle famiglie, rapporti fra moglie e marito, decisioni sui figli, possibilità di scioglimento) variano enormemente tra l’antichità e e oggi, così come tra i vari paesi del mondo. Non esiste una “essenza” del matrimonio comunemente accettata né c’è accordo sui suoi scopi: l’unione romantica di due persone è una concezione relativamente recente, post Rivoluzione francese.

La Brake ci spinge a chiederci se le attuali restrizioni poste alle coppie omosessuali o alle coppie transnazionali possano essere giustificate in società liberali e siano coerenti con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Il fondamento di un ordinamento politico liberale è l’autonomia dell’individuo, libero nelle sue scelte alla sola condizione di non recare danno al resto della società. In particolare, a rifletterci bene, è sorprendente che una materia intima come la scelta del partner di vita debba essere regolata dallo Stato invece che lasciata alla libera scelta delle parti: qual è l’interesse collettivo che giustifica l’intromissione dell’ufficiale di stato civile prima e quella del giudice in caso di separazione?

Oggi, non solo la scelta del matrimonio rispetto alla convivenza è regolamentata dallo Stato ma questi attribuisce enormi vantaggi pratici ed economici (dall’eredità, alle pensioni, alle disposizioni riguardo ai figli) alle coppie che scelgono di “regolarizzare” (già questa parola implica una preferenza ingiustificata) la loro unione.

Questi vantaggi raramente sono difesi sulla base di argomenti razionali. Si tratta piuttosto di una legislazione-bricolage che include ampiamente residui di concezioni passate, o di moralità tradizionali, e si riduce a indicare la famiglia come “cellula fondamentale della società”. E’ implicito che si tratti di una famiglia composta da un uomo e una donna e dai loro figli.

Questa superficialità nella giustificazione politico-filosofica dei vantaggi attribuiti alle coppie sposate tradisce una profonda debolezza degli argomenti. Innanzitutto, la preferenza accordata viola il principio di neutralità dello Stato rispetto alle opinioni religiose: atei, agnostici e ora anche alcune denominazioni protestanti (episcopali e anglicani, per esempio) accettano il matrimonio anche di coppie costituite da due persone dello stesso sesso. L’accordare dei vantaggi a istituzioni sostenute, per esempio, dalla chiesa cattolica viola la separazione tra Stato e chiesa e instaura una discriminazione a danno dei non credenti, o dei credenti in altre religioni.

In secondo luogo, la giustificazione del sostegno alla procreazione non ha alcun fondamento filosofico valido: lo Stato non può sapere, al momento in cui ratifica il contratto di matrimonio, se i due sposi vorranno o potranno concepire dei figli. Salvo voler tornare ai tempi in cui i re d’Inghilterra ripudiavano le mogli non in grado di dare loro un erede, la giustificazione della procreazione non può essere considerata valida (su questa base, logica vorrebbe che il matrimonio fosse sciolto d’autorità se entro un certo limite di tempo la coppia non fa figli).

Se i figli non sono lo “scopo” del matrimonio, occorre chiedersi quale sia una giustificazione pubblicamente rilevante per questa istituzione. Si potrebbe sostenere che una società stabile dovrebbe premiare le relazioni basate sul sostegno reciproco, l’amore per l’altro, la cura nei momenti di difficoltà fisica o psicologica. Questa posizione appare più coerente con i principi del liberalismo, anche se si potrebbe obiettare che lo stato non ha alcun ruolo nel definire le regole di scelte così intime e personali.

La Brake compie una rassegna assai ampia e documentata ma non cita un precedente che rafforzerebbe notevolmente la sua posizione: nella sentenza  del 1973 Roe vs. Wade, la Corte suprema degli Stati uniti decise che interrompere la gravidanza era una scelta così intima e privata per ogni donna da non poter essere regolata dalla giurisdizione se non per motivi di sanità pubblica, cioè solo se oltrepassato il primo trimestre dal concepimento. La Corte stabilì inoltre che la privacy messa a fondamento della decisione si trovava nella “penombra” dei diritti costituzionali garantiti ai cittadini americani ma che essa doveva ugualmente essere tutelata.

Su questa base, non si vedono buoni argomenti per regolamentare scelte di minore importanza rispetto all’aborto come sono quelle di vivere con un partner o di lasciarlo, di condurre la propria vita insieme a un’altra donna piuttosto che insieme ad un uomo. Una posizione coerente con il principio di autodeterminazione e con la promessa del libero “perseguimento della felicità” richiederebbe l’abolizione pura e semplice del matrimonio.

Tuttavia la Brake accetta che la preoccupazione per la stabilità sociale e per la garanzia della continuità nell’educazione dei figli conduca a mantenere in vita questa istituzione. Per essere coerente con le premesse politico-filosofiche che ha esposto, però, essa ne sostiene una versione “minima”, a cui naturalmente dovrebbero avere accesso  anche le coppie omosessuali i cui eventuali figli adottati (o prodotti con l’aiuto di inseminazione artificiale e di un “utero in affitto”) dovrebbero godere di tutti i diritti e le tutele dei figli di coppie eterosessuali.

 

Fabrizio Tonello

Il libro

Minimizing Marriage. Marriage, Morality and The Law, Elizabeth Brake, 2012 Oxford University Press

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