SOCIETÀ

Fine del bicameralismo, il Senato diventa una camera dei Lord

Se il complesso, e assai controverso, progetto di modifica della Costituzione voluto dal governo Letta andrà in porto gli italiani potrebbero ritrovarsi con una sola camera che vota la fiducia, mentre il Senato diventerebbe una camera delle regioni, con poteri limitati. Questo è quanto emerge finora dal gruppo di 42 esperti che si riunisce ogni lunedì mattina alle 10 a Roma: sulla trasformazione del Senato sembra esserci un ampio accordo fra Pd e Pdl, con qualche scetticismo fra gli indipendenti.

Al riparo dalle polemiche giornalistiche, il gruppo dei “saggi” sta lavorando alacremente, con Augusto Barbera e Luciano Violante a dirigere la discussione e il ministro Gaetano Quagliarello che prende diligentemente appunti per l’intera seduta. Il tema su cui non c’è ancora unanimità è il modo di elezione del Senato, che alcuni vorrebbero composto esclusivamente di rappresentanti nominati dalle regioni, mentre altri obiettano che una soluzione simile sarebbe “ottocentesca” e propongono di mantenere l’elezione diretta da parte dei cittadini, sia pure su base regionale.

In entrambi i casi, finirebbe il bicameralismo “perfetto” che ha caratterizzato la storia della Repubblica dalle origini ad oggi e il Senato diventerebbe più simile, dal punto di vista dei poteri, alla camera dei Lord inglese, o al Senato francese: sia in Gran Bretagna che in Francia è solo la Camera a votare la fiducia al governo e ad avere l’ultima parola sulle leggi. Negli Stati Uniti, il Senato ha gli stessi poteri della Camera per quanto riguarda le leggi ma non esiste il “voto di fiducia”: il governo nasce come emanazione diretta dell’elezione del Presidente da parte dei cittadini, attraverso il collegio elettorale.

La condizione perché questa trasformazione vada in porto è l’approvazione del disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri il 6 giugno scorso che prefigura nuovi modi e tempi per la riforma della Costituzione, derogando all’art. 138. Esso attribuisce al Governo il ruolo di proponente delle riforme costituzionali e impone un limite temporale al procedimento di revisione, 18 mesi, come se si trattasse dell’approvazione urgente di una legge ordinaria.

Il testo in discussione al Senato diminuisce da tre mesi a uno l’intervallo intercorrente tra la prima e la seconda approvazione del testo delle leggi di revisione costituzionale. Un intervallo voluto espressamente dai Costituenti perché le eventuali modifiche costituzionali potessero essere adeguatamente discusse nell’opinione pubblica prima della delibera definitiva delle Camere.

Infine, come ha rilevato il professor Alessandro Pace nel corso della sua audizione davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato il 21 giugno scorso, gli effetti della deroga all’articolo 138 sarebbero che“una o più parti della nostra Costituzione verrebbero definitivamente modificate”. Uno stravolgimento della Carta che neppure un eventuale referendum confermativo sanerebbe, dato che i cittadini si potrebbero ritrovare a votare su un testo estremamente eterogeneo (come accadde per la revisione, poi bocciata, del 2006), che includerebbe non solo la modifica della composizione e del ruolo del Senato ma anche una qualche forma di presidenzialismo, la riduzione del numero dei deputati, forse la separazione delle carriere dei magistrati, sulla strada della “dipendenza” delle Procure dal governo.

Fabrizio Tonello

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