SOCIETÀ

La meditazione, rimedio buono per tutti i mali?

Racconta lo scrittore Jacob Rubin sul “New Yorker” che “nel corso di un viaggio negli Stati Uniti durante gli anni Settanta lo studioso tibetano Lobsang Lhalungpa, una vita di meditazione alle spalle, trovandosi nel quartiere finanziario di San Francisco, rimase colpito dalla massa frenetica di corpi in movimento e disse ai suoi accompagnatori: 'Qui non vedo esseri umani'”. Altri tempi, commenta Rubin, notando che “un'ondata di articoli e di libri di self-help si sta facendo paladina proprio del genere di consapevolezza (mindfulness) praticata da Lhalungpa, non soltanto come strumento per migliorare salute e benessere, ma come stimolo per la propria carriera”.

Ne è una prova il fatto che quest'anno tra i titoli rimasti più a lungo nella classifica dei best-seller del New York Times ci siano due libri, Thrive e 10th Happier, firmati rispettivamente da Arianna Huffington e da un popolare anchorman, Dan Harris, che decantano gli effetti positivi della mindfulness sulla loro vita personale e lavorativa. E il movimento investe anche Wall Street e dintorni se, come rivela una inchiesta di Bloomberg News, cresce il numero di hedge funders che abbracciano la meditazione per aumentare le loro prestazioni in affari. 

Una contraddizione insanabile? Ancora Rubin – per quanto piuttosto ironico sul tentativo di Huffington di tenere insieme soldi, potere e benessere spirituale, mettendoli sullo stesso piano come parametri di successo personale – inserisce l'attuale fortuna della meditazione in un percorso che ha origini relativamente lontane. 

Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, non furono pochi gli studiosi americani che approfondirono lo studio del pensiero orientale, rendendo popolare il buddismo presso i giovani delle generazioni successive, dai beatnik ai “figli dei fiori”. Non è quindi sorprendente che con il passare del tempo questo filone di studi abbia dato origine a una forma nuova, più occidentale (“aperta verso la scienza, pragmatica, non mistica”) di buddismo, che ha ricevuto la benedizione del Dalai Lama e all'interno della quale si inserisce la meditazione in versione corporate.

Tutto bene, allora? Non proprio. Mentre si diffonde sempre di più, anche in Italia, l'idea che la meditazione sia un rimedio buono per tutti i mali, dallo stress all'insonnia, ecco levarsi voci più caute, sufficientemente qualificate perché valga la pena ascoltarle.

A insinuare qualche dubbio sulla mindfulness come panacea universale sono arrivati in primo luogo i risultati di una recente metaricerca condotta dalla Association for Health and Research Quality, organizzazione governativa statunitense che controlla gli standard degli studi scientifici. Setacciando le migliaia di indagini sulla meditazione, la AHRQ è giunta alla conclusione che ci sono moderate prove di miglioramento nei casi di ansia e depressione, mentre per quanto riguarda stress, sbalzi d'umore, attenzione e stili di vita, le prove sono addirittura considerate insufficienti. 

“La cosa più importante del rapporto, però, è che ha messo in luce come su circa 18.000 studi sulla meditazione solo 47 abbiano gruppi di controllo attivo, un dato significativo perché dimostra che oggi su questo tema si fanno moltissime ricerche, ma quelle qualitativamente buone si riducono a meno di cinquanta”: a parlare, intervistata per Tricycle da Linda Heuman, non è certo una detrattrice della mindfulness, dal momento che Willoughby Britton, oltre a insegnare psichiatria e comportamento umano alla Brown University Medical School, dove conduce ricerche nel campo delle neuroscienze, è anche una buddista convinta e pratica la meditazione da decenni. 

Ma forse proprio per questo Britton si rivela particolarmente lucida nel distinguere i reali benefici della meditazione e gli effetti di quella che si potrebbe definire come una positiva autosuggestione. Negli studi “pre-post”, basati cioè sulla compilazione di due questionari prima e dopo l'esperimento, per esempio, “impariamo a meditare per otto settimane e alla fine ci sentiamo meglio, e la misurazione del nostro stress è migliorata, per cui diciamo: 'La meditazione mi ha aiutato!'. In realtà questa non è una conclusione valida, quello che possiamo dire sul piano scientifico è che qualcosa ci ha aiutato, e quel qualcosa potrebbe essere semplicemente il fatto che ci siamo impegnati per il nostro benessere o che abbiamo risposto a una serie di domande”.

La studiosa tuttavia va ancora oltre nella sua indagine. Con un coraggio notevole per una persona con il suo profilo scientifico, infatti, Britton ha avviato una ricerca inizialmente chiamata Dark Night Project (il “progetto della notte oscura”, da una frase di San Juan de la Cruz) e ora più asetticamente ridenominata Varieties of Contemplative Experience (“Diverse varietà di esperienza contemplativa”), nella quale esplora anche gli effetti negativi della meditazione. 

Effetti a volte devastanti, come testimonia un ex allievo della ricercatrice, Thomas Rocha, che per un reportage uscito su “The Atlantic”  è andato a Providence, Rhode Island, dove in una bella casa di quattro piani del XIX secolo Britton ospita sia yogi e maestri di meditazione, sia persone che dalla meditazione in certo senso cercano di guarire. Come il ventisettenne David, ossessionato da immagini della morte con tanto di falce e cappuccio, o Michael, ex maestro di yoga, che per lungo tempo ha avuto enormi difficoltà nel digerire  fino a convincersi che non si sarebbe mai più ripreso. 

Si tratta di casi relativamente rari, che rischiano tuttavia di aumentare, soprattutto se si considera che oggi a praticare la mindfulness è un numero sempre più alto di persone (oltre venti milioni nei soli Usa) e che a volte, come sottolinea un collaboratore di Britton, Nathan Fisher, maestri non sufficientemente esperti rischiano di sottoporre gli aspiranti meditatori a esperienze troppo pesanti per le loro forze. Né, osserva ancora Fisher, va trascurato il fatto che in altri casi la “notte oscura” è una fase transitoria e in ultima analisi potenzialmente positiva. 

Insomma, un campo in cui muoversi con grande attenzione e prudenza, senza attendersi miracoli. Ne è convinta per prima Willoughby Britton: “Cosa è la mindfulness? Ancora non è chiaro di cosa stiamo parlando. Quali sono queste pratiche? E quali si adattano meglio o peggio a una persona o a un'altra? Quando è saggio smettere di meditare e dedicarsi ad altro? Credo che questa sia la direzione più logica da seguire, perché non c'è niente che vada bene per tutti, e la mindfulness non fa eccezione”.

Maria Teresa Carbone

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