SCIENZA E RICERCA

Le biotecnologie stanno cambiando il mondo: chi le fa?

Quando il giovane genetista Herbert Boyler incontrò per la prima volta Stanley Cohen, durante una conferenza su plasmidi batterici tenuta alle Hawaii, non aveva idea che nel giro di pochi mesi la loro collaborazione avrebbe permesso di effettuare la prima clonazione di un segmento genico da un organismo all’altro. 

Correva l’anno 1973 ed era appena nata una nuova scienza, la biotecnologia. 

A partire da quella data, in neanche quarant’anni dal primo esperimento in laboratorio, le biotecnologie farmaceutiche hanno conquistato il ruolo di protagoniste nel panorama delle medical sciences: fino ad oggi i farmaci biotech, che si stima saranno il 50% dei farmaci prodotti nel 2020, hanno già curato nel mondo oltre 325 milioni di persone.

A differenza dei farmaci tradizionali, piccole molecole nate per sintesi chimica che agiscono sulle proteine usandole come targets, ovvero come recettori, il farmaco biotecnologico è prodotto a partire da materiale biologico (DNA); in altre parole, fa delle proteine il vero e proprio principio attivo (pensate che farmaci di questo tipo hanno pesi molecolari circa 100 volte più grandi dei normali farmaci chimici).

“Ciò che è avvenuto è una vera e propria rivoluzione del farmaco” afferma il prof. Alberto Fontana dell’Università di Padova “lo scopo principale della ricerca farmaceutica biotech è di riprodurre proteine. Le proteine sono difficili, da questo nasce la loro bellezza. Con appena venti lettere dell’alfabeto quante parole riusciamo a comporre, quante frasi? Quante biblioteche abbiamo riempito con quelle venti lettere? Per le proteine è la stessa cosa: a partire da venti amminoacidi si formano 400 peptidi, 8.000 tripeptidi, 10.000 bilioni di decapeptidi e così via”. 

I farmaci e i vaccini di origine biotech ad oggi in commercio sono 190 e hanno un potenziale enorme: si conta che il fatturato annuo dell’eritropoietina (EPO, un farmaco dopante usato soprattutto nel ciclismo) basterebbe, da solo, a garantire la permanenza della Grecia nell’euro. 

Lo sviluppo delle biotecnologie si accompagna in Italia, come nel mondo, alla nascita di nuovi corsi di laurea specialistici per formare un laureato con conoscenze biochimiche, genetiche, farmaceutiche e mediche adeguate per portare avanti lo studio di farmaci basati sulla ricombinazione del DNA. Ma se oggi sono chiare le competenze che il biotecnologo deve avere, non si può dire lo stesso sulle prospettive lavorative. 

Il primo ostacolo che il neolaureato deve affrontare è quello di immettersi in un mercato del lavoro che ancora non ha riconosciuto pienamente questa nuova figura professionale, soprattutto da un punto di vista legislativo.

L’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani (ANBI) da qualche anno sta ottenendo grandi passi avanti nella tutela e nella valorizzazione del profilo professionale del biotecnologo. Ancora due anni fa, ad esempio, per i neolaureati in biotecnologie era impossibile partecipare a concorsi pubblici in ambito medico, accedere alle scuole di specializzazione in biologia e persino iscriversi ai TFA (tirocini formativi attivi) per l’insegnamento scolastico di scienze.. “Le questioni legislative sono critiche” spiega Alessandra Gava (ANBI) “basti pensare che la comunicazione ministeriale sull’equivalenza tra le lauree del vecchio ordinamento, per intenderci le preistoriche lauree quinquennali, e le nuove lauree magistrali o specialistiche è arrivata alle università solo a giugno di quest’anno”.

Naturalmente, tra le problematiche principali per un neolaureato in questo settore, non possiamo dimenticare che ci troviamo in un paese in cui la politica da tempo ha scelto di ignorare la ricerca scientifica come settore di investimento, e soprattutto che viviamo in un momento in cui la disoccupazione giovanile sta toccando massimi storici.

I dati parlano chiaro: su 18.000 laureati in biotecnologie farmaceutiche i posti di lavoro “al bancone” sono 2.500. Pur con la saturazione del mercato, la crisi economica, la disoccupazione giovanile, un dato emerge negli ostacoli del biotecnologo: l’80% delle imprese che si occupano di biotech in Italia sono imprese di piccole dimensioni, mentre solo il 2% è costituito da grandi imprese. 

Le “micro imprese” di nuova costituzione, meglio note come start-ups, sono il mezzo più potente che i giovani laureati hanno per costruire il proprio successo professionale. Tutto ciò che serve, all’inizio, è avere un’idea. Dall’idea, il brevetto, e dal brevetto la possibilità di cercare finanziamenti per svilupparne le applicazioni. Il meccanismo è più o meno questo. La così detta Seed financing, ovvero la genesi dell’idea, è la fase cruciale, in cui tutte le risorse sono focalizzate nella realizzazione del progetto. Fatto ciò, bisogna cercare di ottenere il brevetto e, infine, trovare un business angel, un investitore di professione, o un socio, che fornisca il capitale di partenza. 

Sul tema alcuni studenti del corso di biotecnologie dell’università di Padova hanno organizzato interamente e gestito, presso l’ateneo, lunedì 26 novembre, un seminario dal titolo “Biotecnologie farmaceutiche tra futuro e lavoro”. “Oggi a Biotecnologie abbiamo invertito i ruoli. Abbiamo scelto noi studenti i temi che più ci interessavano, abbiamo cercato i relatori, organizzato un seminario, insomma abbiamo “fatto” da noi la didattica che volevamo” afferma uno degli studenti coinvolti nell’iniziativa che è stata possibile grazie a un bando indetto dall’ateneo. E se Rita Fucci, una delle relatrici presenti al congresso, comincia il suo intervento scherzando: “Guardate il compagno seduto di fianco a voi e sperate in futuro di avere un curriculum migliore del suo”, conclude correggendosi: “ la cosa che dovrete fare è costruire da voi il vostro futuro. Il messaggio è built your network and share your skills. Quindi, per quel che riguarda il vostro compagno, guardatelo e cominciate a fare teambuilding insieme”.

“Il mondo dell’innovazione nelle biotecnologie farmaceutiche è in mano a queste piccole strutture di ricerca, imprese ad alto rischio, fondate sulla condivisione dei risultati e sul gioco di squadra. La cultura dell’eroe è morta con Steve Jobs” sostiene Fabrizio Conicella (Bioindustry Park) “un esempio su tutti? Se mai vi capiterà di entrare alla sede di Google, la prima cosa che vi troverete davanti è il bar. In altre parole il luogo della socialità, dello scambio di informazioni è diventato un luogo centrale, viene prima di tutto. I tempi cambiano, una volta la parola “condivisione” in azienda era una parolaccia”.

L’atteggiamento migliore per un neolaureato, o un laureando, insomma, è quindi quello di coltivare le proprie idee con ambizione, ma anche di coltivare relazioni e contatti che potranno essere utili in futuro nell’avviare un’impresa. La competitività esasperata e il mito dell’innovatore solitario, geloso dei suoi risultati e deciso a non condividerli con nessuno per goderne i frutti da solo lasciano da tempo il passo da tempo alla condivisone, nella ricerca e anche nella sua applicazione. Possibilmente, con una start-up “tagliata” sul gruppo di ricerca che ha creato l’innovazione. 

Sara Dal Cengio

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