SOCIETÀ

Rinuncia ai miti dello sviluppo e riscatto sociale: la ricetta che può salvare il Sud

L'equivoco del Sud si può riassumere tutto in un esempio: quel ministro napoletano che, nell'Italia pre-Tangentopoli, si vantò di aver fatto ottenere alla Campania più fondi pubblici durante il suo mandato di quanti ne fossero arrivati nell'intero dopoguerra. Risultato? Un peggioramento sempre più marcato, da allora ad oggi, persino rispetto ai parametri economici delle zone più arretrate del Sud Europa. È il paradosso del nostro Mezzogiorno: una classe dirigente eletta, e unicamente interessata a garantire al Meridione un flusso costante di denaro, in una logica assistenziale che prescinde da ogni prospettiva di reale sviluppo.

L'analisi non viene da un esponente delle guardie padane, ma da un imprenditore napoletano attivo nel terzo settore, Carlo Borgomeo, che da anni si batte per far prevalere una visione del rilancio possibile del Sud radicalmente diversa da quella che si è imposta nel nostro paese. A Padova per presentare il suo libro, appunto L'equivoco del Sud (Laterza 2013), Borgomeo ha illustrato l'impegno della fondazione "Con il Sud", da lui presieduta. Un progetto nato dall'intesa tra fondazioni bancarie e organizzazioni del terzo settore per finanziare progetti in grado di ricostituire il "capitale sociale", il tessuto di relazioni, istruzione, servizi che in quest'ottica è precondizione per uno sviluppo durevole. "Con il Sud" propone un'analisi del degrado e dell'arretratezza economica del Meridione che lascia del tutto sullo sfondo l'aspetto dei trasferimenti economici: con una franchezza da uomo del Sud e quindi scevro da sospetti di pregiudizi, Borgomeo identifica il problema centrale nello scarso senso civico, visto come causa, e non conseguenza della corruzione e della scarsa efficienza del sistema.

Una mancanza di senso delle istituzioni e della legalità che sarebbe stata colpevolmente favorita dagli errori radicali commessi a Roma, con l'avallo della gran parte della classe dirigente meridionale, almeno a partire dalla metà degli anni Sessanta. È in quel periodo che si afferma l'idea della massiccia industrializzazione del Sud, vista come condizione di crescita e soprattutto di argine alla disoccupazione. Per Borgomeo un errore spaventoso, che prescindeva completamente dai caratteri e dalle esigenze di un territorio che, ben più che grandi stabilimenti piovuti in mezzo al nulla, avrebbe richiesto la tutela e lo sviluppo di attività artigianali e di piccola imprenditoria che avrebbero avuto chance molto maggiori di attecchire e generare benessere. Un'imposizione, quella dei megaimpianti, che avrebbe quindi azzerato ogni possibilità di creare un tessuto produttivo reale e diffuso, e che spiegherebbe al contrario la maggior floridezza industriale di aree come quella leccese, in cui l'assenza delle "cattedrali" avrebbe evitato di far terra bruciata dell'economia locale.

Ragioni storiche che si perpetuano, secondo l'imprenditore, in uno schema che non tramonta: la classe dirigente del Sud che denuncia il degrado, invoca i fondi statali o europei, e ottiene i trasferimenti senza alcuna assunzione di responsabilità. Serve, secondo Borgomeo, un cambio radicale di obiettivi: abbandonare l'illusione di inseguire Pil e modalità produttive del Nord per adeguarsi a un modello forse più modesto e graduale, ma molto più in linea con le vere precondizioni per uno sviluppo durevole. Lavorare, dunque, sull'evasione scolastica, sull'assistenza domiciliare agli anziani ma anche sulla manutenzione del tessuto urbano e del territorio: su tutti quegli investimenti, insomma, che con spesa fortemente inferiore garantiscono la ricomposizione sociale e costituiscono la premessa per ogni iniziativa imprenditoriale che non si traduca nel dilapidare risorse; ma consentono anche di prevenire costi economici ingentissimi, come quelli legati alla gestione e al recupero dei soggetti che rimangono intrappolati nelle reti della criminalità.

Lo spreco criminoso di risorse è al centro dell'altra opera sul Mezzogiorno presentata a Padova: Se muore il Sud di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Feltrinelli 2013). Qui prevale, come sempre nelle inchieste dei due giornalisti, l'aspetto della denuncia: con una serie di dati economici impressionanti, gli autori confermano come l'afflusso massiccio di finanziamenti pubblici abbia provocato l'ulteriore declino del Mezzogiorno, che non cessa di perdere terreno nei confronti del resto d'Europa. Come nell'opera di Borgomeo, anche in Se muore il Sud l'esigenza centrale è quella di far piazza pulita di tutti i pretesti e le menzogne che hanno accompagnato la peggiore retorica meridionalista, quella che attribuiva al Nord tutte le colpe e individuava nell'assistenza economica "riparatrice" l'unico rimedio. Cadono così molti miti, come quelli della presunta politica di rapina dello Stato postunitario, che avrebbe depauperato il Sud delle risorse preesistenti, o di una presunta maggiore prosperità e industrializzazione che avrebbe caratterizzato le regioni meridionali durante il fascismo o, addirittura, subito dopo l'impresa dei Mille.

Se le responsabilità del Nord non mancano (Stella e Rizzo citano diversi esempi, dallo sviluppo delle ferrovie meridionali in mano ai politici piemontesi al massiccio sfruttamento degli affari della ricostruzione in Irpinia da parte delle imprese settentrionali) va comunque eliminata ogni suggestione neoborbonica. Serve una chiara ammissione di corresponsabilità storica da parte della classe dirigente locale e, nuovamente, una completa inversione di rotta, che cancelli i residui della polemica Nord-Sud che già Croce definiva "inconcludente" e abbandoni l'eterna corsa ai finanziamenti pubblici come unica speranza di riscatto. Riscatto che, per Borgomeo, potrà avvenire solo quando il Sud accetterà di contare solo su se stesso, e si rivelerà allora capace di compiere miracoli: come l'azienda di giovani nata pochi anni fa a Mirabella Imbaccari, cinquemila abitanti in provincia di Catania, capace di ideare il software che coordina i taxi a New York.

Martino Periti

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