SOCIETÀ

Start-up come soluzione della crisi? Un falso mito

Nascita, vita e (abbastanza spesso) morte di imprese italiane nei nuovi contesti competitivi. Il dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’università di Padova ha “fotografato” 500 società di capitali (hanno l’obbligo di presentare i bilanci) in tre settori, a medio-alto contenuto di conoscenza: il bio-tech, la meccanica evoluta ed i servizi alle imprese ad alto contenuto di conoscenza, i cosiddetti Kibs. Nell’arco di due anni, ne ha analizzato i processi di nascita e le performance, le difficoltà e i successi, seguendo tre linee di approfondimento: relazioni fra tipologie di nuove imprese (sono considerate “nuove” quelle con 10 anni di età) e tassi di crescita, processi di trasferimento tecnologico e le forme attraverso le quali si sviluppa la natalità delle imprese.

Lo studio - responsabile scientifico del gruppo , composto da 11 ricercatori è Andrea Furlan - è stato presentato alla Camera di Commercio di Padova nel corso di un incontro , presenti numerosi studenti. Come ogni ricerca che si rispetti, ha proposto numerosi elementi di novità, sfatando molti luoghi comuni. Intanto, chi crea un’azienda proprio giovanissimo non è: ha mediamente sui 40-50 anni. In particolare, per 100 delle 500 aziende esaminate i fondatori sono ultracinquantenni. Studenti talentuosi che si consorziano per dare vita a imprese industriali sono una rarità assoluta. Rispetto alle industrie tradizionali da molti anni sul mercato, i cui “capi” molto spesso sono in possesso del  solo titolo di scuola media inferiore, le “nuove” imprese vengono avviate da laureati o diplomati. La maggior parte possiede una laurea in uno dei rami di ingegneria. 

Sulle 500 imprese oggetto della ricerca, 381 sono classificate “de novo”, cioè fondate da una o più persone; le altre fanno invece parte del gruppo “de alio” (nate dalla trasformazione di altre imprese). E’ emerso che tende a fare impresa in un settore chi ha acquisito un’esperienza lavorativa nello stesso settore (239 su 381).

Perché si decide di creare un’impresa? Spesso la molla è il desiderio di far fruttare al massimo l’esperienza accumulata in anni di lavoro. Chi mette i capitali? Il 74% del fabbisogno viene coperto in proprio, il 18 per cento da banche.

Imprenditori non ci si improvvisa. I tassi di mortalità sono lì a testimoniare che le difficoltà da superare sono tante e complesse. Prime fra tutte le competenze e il marketing. Dopo due anni, su 100 aziende nate, ne restano attive 66. Dopo 4 anni si cala a 49 e dopo 6 anni il numero scende a 39. Gli aggiustamenti nelle nuove imprese nel corso degli anni portano a mescolare le competenze dentro e fuori le imprese per incrementare il tasso tecnologico; mentre il ricorso a università e fiere serve a colmare il gap nel settore del marketing. E’ emerso anche che fra i driver che spingono  maggiormente la crescita di un’impresa, un ruolo fondamentale lo svolge l’innovazione, che, soprattutto nei settori della meccanica e del manifatturiero, ci permettono di stare in Europa. 

Fra i pilastri portanti dell’alta intensità di conoscenza un ruolo fondamentale lo riveste l’università con i suoi processi di tech transfer. A Padova, è stato sottolineato, l’ateneo è protagonista nel sostegno tecnologico alle imprese. Qui sono attivi spin-off supportati da una ricerca scientifica ai massimi livelli, come è stato riconosciuto anche nell’ambito della valutazione della qualità della ricerca. E a loro volta gli spin-off sono bridge fra scienza e mercato.

La “fotografia” delle nuove imprese italiane che è stata scattata attraverso la ricerca del  dipartimento dell’ateneo di Padova si diversifica in modo netto rispetto all’immagine delle aziende sopravvissute  che abitualmente ci presentano i media: ora le nuove imprese crescono e hanno buone performance. E la politica deve guardare proprio a queste. “La nascita di nuove imprese e le start-up - è stato evidenziato - sono i serbatoi ideali per alimentare innovazione delle imprese, soprattutto medie e piccole, e sviluppare nuova occupazione. Sembra quindi questo uno degli ambiti principali in cui l’Italia deve cercare di investire per aumentare le capacità del sistema industriale di produrre nuova conoscenza”.

Che l’Italia sia piuttosto attardata in tema di ricerca e innovazione lo ha sancito già nel 2011 il World Economic Forum che ha collocato il nostro Paese al cinquantunesimo posto su 138. 

Dopo anni e anni, dopo fiumi di parole, baruffe e accuse, dopo milioni di posti di lavoro perduti, di ruberie e di risorse disperse in mille rivoli, ci si accorge che la battaglia per il lavoro è la madre di tutte le battaglie. Ci si accorge che centinaia di migliaia di giovani salgono sul treno con destinazione Nord Europa o America, spesso con biglietto di sola andata. L’occupazione riparte con le nuove imprese, che a loro volta sono figlie di chi ha patrimoni di conoscenza e di esperienza. Una saggia politica economica deve girare pagina , toccando con  mano quel che ha detto anche questa ricerca dell’ateneo padovano: il sistema pubblico della ricerca (università) e l’iniziativa imprenditoriale sono alla base della crescita economica, quindi dello sviluppo di un territorio e della crescita occupazionale, soprattutto giovanile. Più ricerca, più tecnologia, più innovazione stimolano la creazione di nuove imprese. È soprattutto così che la battaglia per il lavoro può finalmente riportare la disoccupazione a percentuali alla pari degli altri Paesi più competitivi. E meno mortificanti per un Paese che vuole rialzare la testa. 

Valentino Pesci

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