UNIVERSITÀ E SCUOLA

Test di valutazione, le università Usa fanno autocritica

Impazza ormai un po’ in tutto il mondo la mania dei test standardizzati, da quelli INVALSI in Italia a quelli PISA, che mettono a confronto le performance degli studenti di decine e decine di paesi diversi. La patria di questo genere di esami sono senza dubbio gli Stati Uniti: il primo e più famoso tra essi, il SAT (un acronimo che un tempo stava per Scholastic Aptitude Test ma che oggi non significa più niente), risale addirittura al 1926. Eppure qui queste prove sono oggi sotto attacco da ogni direzione. Tant’è che David Coleman, il presidente di College Board, l’organizzazione non-profit che gestisce il SAT, ne ha annunciato recentemente l’ennesima rimodernizzazione, nella speranza di restare al passo con i tempi. 

“È ancora presto per giudicare l’efficacia della riforma visto che per ora sappiamo poco di come sarà strutturato il test – dice Derek Briggs, professore presso il dipartimento di ricerca e metodologia della malutazione della School of Education dell’Università del Colorado a Boulder – L’intento di David Coleman però è lodevole”. Pare ad esempio che il nuovo SAT metterà più enfasi sulla capacità degli studenti di rispondere alle domande in maniera ragionata e attraverso l’uso di fonti e che saranno eliminati vocaboli eccessivamente complessi e raramente usati anche in ambienti accademici, di cui però in passato gli esaminandi erano obbligati a definire il significato. I quesiti di matematica torneranno a essere più in linea con i principi e concetti effettivamente insegnati nelle scuole e diventerà opzionale la parte di composizione del testo.   

Il SAT nasce originariamente come prova prettamente attitudinale, un modo per misurare l’intelligenza di una persona, e fu poi adottato da una manciata di università del circuito Ivy League (quelle private, costose e prestigiose come Harvard, Princeton e Yale) come metodo per determinare quali ragazzi poveri si meritassero una borsa di studio. Oggi invece è sostenuto, e temuto, ogni anno da circa 2 milioni di studenti all’ultimo anno di scuola superiore. Un buon punteggio in questo esame o in altri analoghi come l'ACT,  il suo rivale storico, è infatti diventato uno dei requisiti necessari a accedere a un gran numero di università. 

Una prassi che sempre più esperti trovano, però, intollerabile e da cui sempre più college stanno cercando di liberarsi. “Il SAT e l'ACT sono ridondanti e discriminatori – dice Joseph A. Soares, professore di sociologia presso la Wake Forest University in North Carolina – Sono uno spreco di tempo, denaro, fatica e ansie perché non ci dicono nulla di più sulla futura performance universitaria di uno studente di quello che già sappiamo guardando ai voti ricevuti alle superiori, e sono fonte di discriminazione perché intensificano le disparità sociali”.  Al contrario dei voti, infatti, il punteggio finale nel SAT tende a essere generalmente più basso per le donne che per gli uomini, per i neri e gli ispanici che per i bianchi, per i poveri che per i ricchi. 

Per queste ragioni, la Wake Forest ha abbandonato il requisito dei test nel 2009, rendendoli opzionali e concentrando invece il reclutamento delle nuove leve esclusivamente sui loro voti, curriculum vitae, lettere di presentazione e raccomandazione. Oggi questa è la norma in circa un terzo di tutti gli istituti che offrono corsi di laurea di quattro anni. “Per noi è stato un grande successo – dice Soares – Abbiamo ricevuto un maggior numero di domande di iscrizione, anche da parte di giovani poveri o provenienti da famiglie poco istruite e da appartenenti a minoranze, e quindi abbiamo potuto incrementare la diversità etnica e sociale del nostro corpo studentesco e abbiamo anche reclutato studenti migliori”. Dal 2009 a oggi, ogni nuova generazione di matricole della Wake Forest ha ottenuto voti più alti alla fine del primo anno di università di quella precedente. 

Per chi, come Soares, considera SAT e ACT inutili se non addirittura dannosi, i cambiamenti introdotti da College Board non sono quindi altro che una “distrazione” da parte di un’organizzazione che vuole rimanere rilevante, sempre sulla cresta dell’onda di “un’industria con un giro d’affari da miliardi di dollari”. Va detto peraltro che Soares non ce l’ha con il concetto di test standardizzato di per sé, ma con questi due in particolare, e con l’uso che ne fanno oggi le università. “Le prove di competenza su una materia specifica, che testano l’agio con cui uno studente si muove su un argomento che ha studiato a lungo, forniscono indicazioni utili”, dice Soares.

Anche Briggs ha i propri dubbi in merito. “Più questi test sono utilizzati per prendere decisioni importanti, più è facile che siano corrotti – dice il professore dell’Università del Colorado – dagli studenti che copiano o dagli insegnanti che modificano i curricula al solo scopo di preparare i propri alunni a tali prove”. Briggs identifica inoltre due altri problemi, finanziario e del costo opportunità. “Alcune famiglie spendono migliaia di dollari in corsi privati o insegnanti di ripetizione per aiutare i figli a studiare per questi test – nota Briggs - Con costo opportunità intendo invece tutti quei weekend che un ragazzo passa a esercitarsi per il SAT anziché impegnarsi in altre attività, per esempio la visita a un museo, che forse hanno maggior valore educativo”. 

Detto questo, Briggs rimane tra i sostenitori dei test standardizzati, perché offrono la possibilità di confrontare persone e performance altrimenti estremamente diverse: “I voti possono variare di molto: una A (l’equivalente americano di un 10) non vuol dire sempre la stessa cosa, alcuni insegnanti sono più rigidi, altri più indulgenti, e anche il livello delle materie studiate cambia da una scuola all’altra”. Solo le grandi università piene di soldi e con un enorme staff amministrativo possono permettersi di guardare in dettaglio a tutta la storia personale di ogni singolo candidato, alla qualità degli insegnanti avuti e delle scuole frequentate. Per tutti gli altri, conclude Briggs, SAT e ACT possono anche non essere gli esami ideali, ma se non ci fossero bisognerebbe inventarli. 

Valentina Pasquali

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