SOCIETÀ

Economia on demand: il ritorno dei braccianti

Ormai le si può usare per pagare il conto al ristorante, in particolare quando lo si deve dividere tra più commensali; oppure per mandare le camicie al lavasecco, con raccolta e consegna a domicilio; oppure ancora per trovare un passaggio sui jet privati per un weekend esotico. Sull’onda del successo ottenuto dall’avanguardia delle varie Uber, AirBnB, TaskRabbit, le app che sono alla base della cosiddetta “sharing economy” pervadono, almeno negli Stati Uniti e in Canada, sempre più industrie e professioni, tanto che si comincia a parlare di una nuova economia “on demand” (ovvero “su richiesta”, giacché basta cliccare su uno schermo di telefono per avvalersi di qualsiasi servizio) o, altrimenti, di “uberizzazione” dell’economia.  

“In realtà preferirei non utilizzare il termine uberizzazione perché i meccanismi coinvolti precedono ed eccedono il caso specifico di Uber – dice Gretchen Purser, professore di Sociologia presso la Maxwell School of Citizenship & Public Affairs di Syracuse University – Ad ogni modo, con essa ci si riferisce al predominio di forme di impiego radicalmente insicure, in cui i lavoratori lavorano non con un orario fisso e deciso in anticipo, ma in maniera flessibile o esclusivamente su richiesta. Parliamo insomma della complete soggiogazione dei lavoratori ai capricci del mercato”.Per Purser, dunque, questo non è un fenomeno nuovo, ma solo la culminazione di una tendenza cominciata anni fa e di cui conosciamo fin troppo bene le conseguenze. 

In questo caso, il precedente sarebbe quello dei “day laborers”, che si traduce approssimativamente, con “braccianti” o, più semplicemente, “lavoratori a giornata”. Concentrati soprattutto nel settore edile e per lo più immigrati, spesso senza permesso di soggiorno, i day laborer sono coloro che ogni mattina all’alba si recano a predeterminati punti di incontro per attendere che un qualche piccolo imprenditore specializzato venga a raccoglierli, quando e se ne ha bisogno, per metterli al lavoro in un cantiere o nell’altro per un numero imprecisato di ore. “I braccianti sono il simbolo dell’economia su richiesta e penso che quella che osserviamo oggi sia la sua diffusione a nuovi settori dell’economia e a segmenti più ampi della forza lavoro”, dice Pusner citando in primo luogo l’esempio della vendita al dettaglio

Certo, i vantaggi, per i consumatori, sono evidenti: le nuove tecnologie sia offrono servizi sempre nuovi e diversi a prezzi generalmente accessibili sia riorganizzano in modo più conveniente ed efficiente l’erogazione di quelli vecchi, dalle pulizie di casa alla compravendita di auto usate alla consultazione del medico di famiglia. In certi casi, inoltre, l’enfasi sull’aspetto di “sharing”, di condivisione, aggiunge una nuova dimensione più personale e meno meccanica all’esperienza di consumo. 

Per i lavoratori è più difficile fare un bilancio altrettanto positivo. Da un lato, le aziende on demand si vantano di poter garantire alla forza lavoro su cui fanno affidamento nuove opportunità di impiego, orari flessibili e massima indipendenza, ingredienti molto importanti per i tanti disoccupati del dopo-Grande Recessione, per coloro che vogliono arrotondare lo stipendio ma hanno solo la sera o il weekend per farlo; per le mamme di bambini piccoli che magari hanno lasciato il posto fisso ma avrebbero comunque tempo di fare qualche lavoretto di quando in quando; e per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, faticano a integrarsi nel sistema lavorativo dalle 8 alle 17 e sono invece predisposti a operare ad altri orari e con altri ritmi. 

D’altro canto, però, alla massima indipendenza corrisponde anche la quasi completa mancanza di garanzie di reddito e l’assenza di una rete di protezione in caso di malattia o incidente, un fatto tanto più grave negli Stati Uniti, dove essa è offerta solitamente non dal governo ma dai datori di lavoro stessi. “L’effetto più ovvio per i lavoratori americani è la loro precarizzazione – dice Purser – Lavoro che è instabile e imprevedibile significa guadagni che sono instabili e imprevedibili, e questo devasta la vita dei lavoratori, oltre che metterli l’uno contro l’altro”.  

Se le tecnologie hanno fatto la loro parte nello scardinare il sistema esistente di relazioni di lavoro e nel dar quindi vita all’economia delle app, così come l’aumentata disuguaglianza economica e un mondo in cui chi ha soldi non ha tempo e chi ha tempo non ha soldi, Pusner sostiene che non bisogna sottovalutare il ruolo giocato anche da altri fattori culturali e politici. “La convinzione diffusa che la forza lavoro sia un peso ha senz’altro contribuito ad alimentare questa trasformazione nella natura stessa dell’impiego – dice la studiosa – Così come anche il mantra neoliberale secondo cui ognuno dovrebbe essere un libero imprenditore”. Liberi imprenditori che, però, nella maggioranza dei casi, non sono altro che freelance senza tutele, o, come li chiamiamo già da tempo in Italia, il “popolo delle Partite Iva”.

L’economia on demand è giovanissima e destinata senz’altro a crescere ancora. Giacché il suo punto forte è la mediazione tra chi fornisce un servizio e chi vuole farne uso, facilitandone la comunicazione reciproca e offrendo garanzie che un tempo non sarebbero state disponibili anche rispetto a lavoratori impiegati dai clienti solo su base estremamente temporanea (ad esempio i designer e programmatori di PeoplePerHour), alcuni settori con determinate caratteristiche ne saranno travolti più che altri. Non c’è dubbio, ad esempio, che il modello Uber sia in procinto di rivoluzionare, oltre all’industria dei trasporti e del taxi, anche quella della logistica. In cinque città, Chicago, Los Angeles, New York, Toronto e Barcellona, è già partito UberEats, il servizio di consegna pasti di Uber, mentre a Washington si possono chiamare gli autisti che guidano per questo marchio per farsi portare a casa la spesa. Tremi insomma la FedEx e le sue centinaia di migliaia di dipendenti, avverte l’Economist. 

Secondo la consulente californiana Yvette Romero, il cui lavoro è stato ripreso recentemente dall’Huffington Post Canada, pare ci sia grande potenziale per una app che renda i servizi degli avvocati disponibili online su richiesta, seguiti a ruota dai lavori di casa, dal giardinaggio e dalla consegna di bevande alcoliche a domicilio. In generale, la frequenza con cui si usa solitamente un servizio e il fatto che ci se ne avvalga in maniera imprevedibile e all’ultimo minuto sono, secondo Romero, due delle caratteristiche che rendono questi settori più adatti all’introduzione delle app. Nelle previsioni del fondatore di PeoplePerHour Xenios Thrasyvoulou, che ne ha scritto su Wired, l’industria automobilistica, dell’immobiliare, della consegna di cibo a domicilio, dei servizi alla persona e le professioni a contratto, da chi produce contenuti ai grafici, sono tra quelle che più verranno rivoluzionate dalle app. 

Per tutti i lavoratori che di questo tipo di professioni ci devono mangiare, l’unica speranza è che il futuro non sia fatto davvero solo di freelancing, ma che invece emergano anche altre modalità di gestione della economia on demand. Managed by Q, ad esempio, che offre agli uffici servizi di pulizia e di consegna di prodotti di cartoleria, sta provando a prendere una direzione diversa, assumendo i propri impiegati a tempo pieno, offrendo loro i benefit tradizionali e organizzando le loro ore lavorative (anche suddivise su più clienti, più compiti e più luoghi) in maniera però regolare e sostenibile. Se ce la farà, quest’azienda potrebbe diventare la dimostrazione che esiste un compromesso tra gli interessi dei consumatori e quelli dei lavoratori, anche nel contesto del mondo uberizzato. 

Valentina Pasquali

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