UNIVERSITÀ E SCUOLA

Italiani nomadi della ricerca

I ricercatori italiani? Attivissimi nel richiedere i finanziamenti europei, che conseguono in buon numero (anche se con un tasso di successo ridotto rispetto alle domande presentate). Però solo metà dei nostri scienziati, una volta ottenuta la borsa, ne fruisce in Italia; né il nostro Paese riesce ad attrarre studiosi stranieri che attuino da noi i progetti finanziati. È il quadro che emerge dal rapporto 2007/2013 del Consiglio europeo della ricerca (Erc), l’ente dell’Unione Europea che destina ogni anno oltre un miliardo di euro per finanziare la ricerca nell’Unione e negli Stati associati. Il documento riassume flussi e criteri di finanziamento nei sette anni svolti sotto FP7, il programma che l’Unione ha riservato a ricerca e innovazione, ora sostituito da Horizon 2020. Cifre e dati permettono una significativa (seppure parziale) ricostruzione della geografia europea della ricerca, ampliata oltre i confini politici dell’Unione: ai finanziamenti di Erc, infatti (7,5 miliardi totali nel periodo considerato) possono candidarsi anche istituzioni di Stati extra Ue associati al programma (Svizzera, Israele, Turchia, alcuni Paesi nordici e balcanici), per un totale di 39 nazioni (un numero attualmente in ampliamento); questo a condizione che le ricerche finanziate si svolgano negli Stati della Ue o negli associati.

Nei sette anni considerati, Erc ha ricevuto 41.866 domande di finanziamento per le tre principali borse a disposizione (destinate a scienziati con diversi livelli di esperienza); i progetti approvati e finanziati sono stati 4.354, poco più di uno ogni dieci domande. Malgrado i candidati fossero originari di un numero altissimo di nazioni (113), la selezione ne ha ridotto drasticamente la cifra: gli scienziati vincitori rappresentavano in totale 63 Paesi. Guardando ai fondi erogati, però, si nota che i cittadini di soli nove Paesi si sono aggiudicati i tre quarti delle borse: l’Italia è quarta, con 407 progetti prescelti, dopo Germania, Regno Unito e Francia; seguono Paesi Bassi e Israele, paesi piccoli ma dal grande potenziale scientifico. Se passiamo dalla nazionalità dei singoli vincitori alla dislocazione delle istituzioni che li ospitano, notiamo che in vetta alla classifica passa il Regno Unito (969 borse assegnate), seguito da Germania (614), Francia (571), Paesi Bassi (356), Svizzera (322) e Italia (253). 

Eppure questi dati lusinghieri (in tutto agli scienziati italiani sono andati fondi per 398 milioni) devono essere letti anche alla luce dell’enorme numero di domande presentate dai ricercatori italiani: nei sette anni sono state in tutto 6.326, primato assoluto tra i Paesi candidati. Così considerato, il dato rivela una percentuale di successi rispetto alle richieste pari al 6,4%, molto bassa rispetto a quella delle altre nazioni più finanziate (che in genere oscillano tra il 13 e il 18%) e simile solo a quella spagnola (6,6%). Per l’Italia il tasso di successo nelle domande è ancora più basso se si considerano non i singoli aspiranti a una borsa, ma le istituzioni italiane coinvolte nelle candidature: in questo caso i progetti finanziati sono stati 253, pari a meno del 5% sul totale delle domande. C’è insomma da riflettere: gli italiani vengono premiati quanto i migliori scienziati delle altre nazioni, ma candidano un numero elevatissimo di progetti (il doppio, ad esempio, di quelli francesi), evidentemente troppe volte privi di una selezione a monte efficace. 

Ma l’aspetto più critico che traspare dal rapporto di Erc è, purtroppo, la conferma di un problema ben noto: gli scienziati italiani competono ai massimi livelli, ma una volta ottenuto il finanziamento (o già al momento di richiederlo) lasciano il nostro Paese. Su 407 connazionali vincitori di borsa, solo 229 erano collegati a un’istituzione con sede in Italia: poco più della metà. Gli altri italiani hanno scelto in prevalenza il Regno Unito (54), la Francia e la Svizzera (30 in entrambi i casi), la Germania (19), la Spagna (16) e i Paesi Bassi (12). È interessante mettere a confronto i dati sulla sede di ricerca dichiarata dai candidati italiani al momento della domanda e la sede scelta una volta vinta la borsa. Delle 6.326 domande di candidati italiani, ben 5.354 (l’85%) erano collegate a istituzioni di ricerca nazionali. Ma, come abbiamo appena visto, tra i vincitori il rapporto si stravolge: quasi la metà ha come riferimento un Paese straniero. Se guardiamo inoltre a quello che accade altrove, il divario è pesante: rimangono a fare ricerca nel loro Paese l’88% dei britannici e l’83% dei francesi; percentuali di poco inferiori si hanno per la Spagna, mentre sono più basse quelle della Germania (64%).

Ancora più problematico è poi il quadro della capacità dell’Italia di attrarre scienziati stranieri. Nei sette anni del programma Erc, oltre ai 229 italiani, hanno scelto di fare ricerca da noi appena 24 studiosi esteri, in rappresentanza di 13 nazioni. Così, nell’indagine l’Italia risulta lo Stato che ha il bilancio in assoluto più sfavorevole tra propri scienziati che si trasferiscono all’estero e scienziati stranieri che vengono a lavorare da noi. Tra le altre nazioni, la graduatoria della capacità attrattiva è guidata dalla Svizzera: sul totale dei vincitori di borsa che la scelgono come sede delle ricerche, quasi tre su quattro non sono cittadini della Confederazione. Seguono Austria (70% di stranieri) e Regno Unito (45%); Francia, Germania e Spagna “si accontentano” di uno scienziato straniero su quattro. 

Uno sguardo, infine, alle capitali europee della ricerca Erc. Le città sedi di istituzioni che hanno ottenuto il maggior numero di borse sono Parigi (414), Londra (267) e Monaco di Baviera (185), seguite da Cambridge, Oxford, Zurigo, Barcellona, Amsterdam e Losanna. Quanto alle singole istituzioni, il Cnrs francese è primo con 200 borse, e precede la tedesca Max Planck Society (128) e le Università di Cambridge (126) e Oxford (119).

Martino Periti

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