SOCIETÀ

Muretti a secco patrimonio dell'Unesco: 3 motivi per tutelarli

L’iscrizione tra i Patrimoni immateriali dell’Umanità dell’Arte della pietra a secco, annunciata dal Comitato intergovernativo Unesco lo scorso 28 novembre, costituisce un’occasione imperdibile per riconoscere il valore immateriale sotteso alla montagna mediterranea, ben rappresentata dagli otto Stati che ne hanno sostenuto la candidatura (Italia, Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia, Spagna e Svizzera). Sinonimo di fatica, arretratezza e miseria, l’immenso patrimonio dei manufatti in pietra a secco, a lungo dimenticato come retaggio del passato, si prende oggi una piccola rivincita, nella speranza che almeno in minima parte ciò contribuisca a valorizzare la manutenzione di un vastissimo patrimonio che oggi versa prevalentemente in situazioni di degrado.

Ci sono almeno tre motivi che ci invitano a farlo: il primo è dato dal rispetto per i nostri padri, per quell’immenso “deposito di fatica” costruito dalle generazioni che ci hanno preceduto: centinaia di migliaia di chilometri di muri in pietra a secco che ancora ricamano i versanti di colline e montagne europee: in un Dossier del 2005 la Commissione Europea stimava la presenza in territorio europeo di oltre 1.600.000 km di elementi lineari o stone walls. Si tratta certamente di un dato grezzo, probabilmente ancora assai sottostimato. In Italia, solo con riferimento ai muri a secco a sostegno dei terrazzamenti (e non dunque ai semplici muri a secco divisori), l’Università di Padova ha presentato una prima mappatura nazionale di oltre 173.000 km di muri in occasione del III Incontro mondiale sui paesaggi terrazzati tenutosi a Padova nel 2016, dato riferito al “visibile” da foto aerea che potrebbe essere tranquillamente raddoppiato se si considerano vaste aree in abbandono ormai nascoste dalla vegetazione. Se pensiamo che per realizzare un metro lineare di muro alto 1,5 metri (l’altezza media stimata dei muri di sostegno) mediamente un artigiano impiega una giornata di lavoro, senza considerare il lavoro di ricostruzione/manutenzione tale patrimonio sarebbe frutto di 1 milione di anni di lavoro (i muri europei richiederebbero almeno 5 milioni di anni di fatica, senza considerare manutenzione e ricostruzione, arrivando quindi alla comparsa dei primi ominidi sulla Terra). Un dato iperbolico, certamente, ma che serve a farci prendere coscienza di quanta fatica sia stata spesa per addomesticare il nostro pianeta, renderlo coltivabile e abitabile: un dato che invita quanto meno al rispetto, e ad un primo monito alla manutenzione.

Il secondo motivo per cui ha senso preservare i saperi legati a queste tecniche è prettamente filosofico, come spiega Donatella Murtas nel suo libro Pietra su pietra (Pentàgora, 2015): tecniche e saperi costruttivi improntati alla vitalità, cooperazione, flessibilità, sostenibilità sono la negazione di una certa idea di modernità frettolosa, del “pensiero del calcestruzzo” che spesso ha sostituito le massicciate in pietra a secco imponendo un approccio rigido, standardizzato, individuale, specialistico, dai costi ambientali poco sostenibili. I muri a secco sono semplici e al tempo stesso complessi, sono unici nella loro varietà litologica e formale ma al tempo stesso universali e diffusi in tutto il mondo, sono apparentemente insostenibili, se si pensa alla fatica necessaria per costruirli, ma anche modello di sostenibilità e di economia circolare, perché “ogni pietra è buona”, ogni pietra trova il suo posto nel muro, non esistono dunque materiali di scarto. Il riconoscimento UNESCO dovrebbe quindi stimolare l’avvio di quel riconoscimento di scuole e maestranze contadine-artigiane che oggi, non solo in Italia, mancano di riconoscimento professionale e supporto normativo.

Il terzo motivo che ci invita a riconsiderare quest’arte è che i manufatti realizzati grazie ad essa, se realizzati appunto “a regola d’arte”, sono in grado di rispondere perfettamente alle plurime ed esigenti necessità del mondo contemporaneo, che in una fase di crisi climatica non può più permettersi deficit di manutenzione e pratiche insostenibili, ma non vuole nemmeno rinunciare alla qualità di cibi e paesaggi, richiede dunque aree rurali polifunzionali, “campagne urbane” in grado di soddisfare e compendiare le tre funzioni della naturalità: quella ecologica, quella produttiva, quella estetica legata al leisure e al tempo libero. Ed ecco dunque che nel garantire stabilità strutturale alla funzione produttiva, un muro a secco si adatta e conferisce varietà alle forme del paesaggio, è insieme elemento potente e adattabile alle peculiari condizioni morfologiche e litologiche con cui è in stretto dialogo; garantisce con la sua permeabilità e porosità l’equilibrio idrogeologico, protegge il suolo contrastando fenomeni di erosione e desertificazione; nei suoi interstizi ospita sorprendenti nicchie di biodiversità, date dalla flora muricola, da insetti, rettili e microfauna che trova rifugio ai bordi del campo coltivato; il minuto fraseggio che i muri contribuiscono a creare spesso è spia di una resistenza alla omologazione e banalizzazione di prodotti e paesaggi dell’agribusiness, trincea per piccole produzioni di nicchia, cultivar particolari, filiere apparentemente fragili, ma capaci di connettere in maniera potente saperi e sapori, di offrire assieme ad un cibo anche una storia, un’etica e una geografia, oltre le finte vetrine e gli edulcorati slogan dei “paesaggi presepe” della pubblicità.

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